di Riccardo Cristiano*
Sul volo che lo ha ricondotto in Italia dal Kazakhstan, Francesco ha svolto delle considerazioni importantissime su guerra, armi e dialogo che stranamente non hanno avuto la giusta eco, soprattutto nei media più sensibili a questi temi. Perché le sue parole hanno delle conseguenze culturali rilevanti. Sulla guerra il papa ha detto chiaramente che esiste un diritto alla difesa, che è anche una forma di amore alla patria. Queste parole hanno in certo qual modo riportato alla dimensione ucraina il conflitto ucraino. Un conflitto che è vissuto e subìto dalla popolazione del posto con gli stessi desideri e sentimenti di quella italiana al tempo della Seconda guerra mondiale, ad esempio. La guerra non è un’ideologia, la realtà prevale sull’idea, ma se c’è invasione la popolazione deve potersi difendere, manifestare amore alla propria patria.
Proprio nel dotarsi dei mezzi per farlo deve emergere però la differenza morale rispetto all’aggressore: acquisire armi non per provocare altrove distruzioni o lutti, ma per difendere se stessi e la propria patria. Venderle è dunque moralmente lecito per questa finalità, non per incrementare gli utili o innovare i propri arsenali. Quella sin qui esposta è una felice sintesi bergogliana della dottrina della Chiesa sulla guerra, che marginalizza i punti più controversi della dottrina stessa, l’uso proporzionale della violenza da parte di chi difende e la ragionevole speranza di successo, per legare e valorizzare quelli che nel mondo d’oggi appaiono decisivi.
Nel dibattito politico italiano ritrovo queste categorie di giudizio molto poco presenti. Certo, l’Italia non è più un Paese cattolico, molti sono soddisfatti della loro condizione di secolarizzati, ma siccome spesso e volentieri non pochi citano il Papa in materia di guerra e morale, se lo facessero seguendo quello che dice e non quello che pensano loro sarebbe preferibile.
Il valore di questa indicazione emerge se si considera l’altra considerazione che ha fatto il Papa: il dialogo con l’invasore puzza, ma va fatto ugualmente. Qui c’è un’implicazione da capire e interpretare. Se tutti desideriamo il trionfo del bene sul male, tutti abbiamo difficoltà a immaginare un dialogo con l’aggressore. Tra i molti che, come papa Francesco, ritengono che le cose stiano così, i più in cuor loro antiamericani provino però a immaginare una situazione in cui l’aggressore sia la Nato o gli Stati Uniti. Bisogna dialogare anche se ci sembra che puzzi? O bisogna andare avanti, sconfiggere sonoramente gli Stati Uniti? Questi modi di ragionare hanno una conseguenza evidente: la moderazione non è più un valore ma un disvalore. Il contrario di moderazione non è “eccesso”, ma “chiarezza”. Questo schematismo può portare a ritenere che non c’è più differenza tra occupante e partigiano. Oppure che l’aggressore ha sempre tutto il torto possibile, non c’è nulla di cui discutere, va solo messo nelle condizioni di non nuocere, magari riducendolo a paria della comunità internazionale.
L’epoca segnata da queste tendenze è un’epoca orientata al manicheismo politico, dove da una parte ci sono i figli del bene e dall’altra i figli del male: “o noi o loro”. In questa condizione, quella del Papa diviene una delle poche voci capaci di indurre a un pacifismo moderato, dove cioè non si segue l’eccesso di ritenere uguali vittime e carnefici, o ad un bellicismo moderato, dove cioè la difesa non diviene tentativo di annientare l’altro, creando le condizione per non disumanizzarlo, distinguendo sempre tra popoli e regimi. Questa idea di “moderazione” non ha nulla a che fare con l’inciucio o il furbesco che gli opposti estremismi le attribuiscono. Facciamo un esempio caro a Francesco e alla sua cultura: Gesù apprezza l’amministratore infedele non perché sia infedele, ma perché non segue la logica del massimo profitto o dell’eccesso, ma della moderazione, del contenimento degli utili per più numerose e fruttuose relazioni. Dunque non ritiene che tutto sia nel nome dell’interesse, del guadagno, ma dell’incontro fruttuoso con gli altri. Dunque non segue l’idea “o noi o loro”, “ io o gli altri”, la mia o la loro visione.
Questo rifiuto dell’estremismo ideologico non è solo cattolico, ma non è neanche di tutto il cattolicesimo. Su di esso si gioca la complessa partita culturale con i cosiddetti tradizionalisti che curiosamente sul tema della guerra dovrebbero esprimere la stessa posizione del patriarcato di Mosca: l’Occidente delle nozze gay e dell’aborto è il regno del male, da distruggere. A pensarci bene è lo stesso pensiero che potrebbero esprimere, per altri motivi, gli estremisti di sinistra: l’Occidente della Nato e delle multinazionali è il regno del male, indifendibile. In tutto questo se si vuole essere onesti qualche traccia di ragione si potrà anche scorgerla, come nel dialogo con l’invasore. Puzza, ma va fatto.
Sono solo alcune delle più banali considerazioni che inducono a ritenere che quanto detto da Francesco, al riguardo della guerra e della Russia sul volo di ritorno da Nursultan, abbia aggiornato un discorso antico alle esigenze di un tempo segnato dal pericolo atomico, il suo uso e i rischi di una tendenza al dividersi tra opposti estremismi, ideologismi, fanatismi.
*Vaticanista di RESET, rivista per il dialogo