Non c’è niente di più pretenzioso del voler provare a descrivere la bellezza. Perché significa illudersi che le parole possano davvero definire la grazia, l’armonia, l’incanto. Un problema antico che è tornato di stretta attualità negli ultimi giorni, quando Roger Federer ha annunciato la sua uscita di scena. Giocherà ancora un match, venerdì prossimo. Ma sarà solo un’esibizione, solo un doppio, solo una partita di un torneo, la Laver Cup, che lui stesso ha voluto creare dal niente. Poi sarà tutto finito. Non ci saranno più corridoi da inventare, avversari da sorprendere, risposte da disinnescare, trofei da sognare, spettatori da stupire. Solo un futuro fatto di normalità dopo una vita intera passata a compiere imprese straordinarie.

Il suo ritiro è una non-notizia (le sue condizioni erano note da tempo) che ha finito col prendere tutti alla sprovvista. Perché l’idea di poter assistere al pensionamento di un re è semplicemente illogica. Perché la fine di un impero porta sempre a chiedersi se arriverà mai un monarca altrettanto illuminato. Per vent’anni Roger Federer ha fatto sagittare la sua racchetta sui campi di tutto il mondo. E lo ha fatto in un modo che a tutti gli altri è stato precluso. Mentre i suoi avversari giocavano a tennis lui scriveva letteratura in movimento. Un colpo dopo l’altro ha disegnato un’estetica tutta nuova, un ponte fra l’eleganza dei grandi giocatori del passato e la brutalità dei nuovi super atleti generati dall’evoluzione dei materiali tecnici. Per molto tempo è stato percepito come una barriera, l’ultimo avamposto che si opponeva all’invasione di tennisti nerboruti e dai bicipiti d’acciaio, entità così sinistramente simili all’uomo macchina vagheggiato dai Kraftwerk.

E più loro martellavano da fondocampo, più Federer rispondeva con il suo gioco pulito ed elegante, con un tennis solo apparentemente senza sforzo. Un “Baryshnikov in scarpe da ginnastica”, come lo hanno definito i fratelli McEnroe, che ha elevato a legge ferrea la sua personalissima trigonometria: a una traiettoria apparentemente insensata corrispondeva un punto in realtà vincente. La sua grandezza è stata trasformare il colpo di genio in serialità. Vederlo giocare significava credere a una promessa, voleva dire accettare l’attesa di una giocata che poteva valere quanto una partita intera. È un concetto che David Foster Wallace ha sintetizzato nella definizione di Momento Federer: “Certe volte, guardando lo svizzero giocare, spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene“.

È così che lo svizzero ha reso più sfumato il confine che separa l’umano dal divino. Anzi, ha incarnato entrambe le dimensioni non in fasi alterne, ma contemporaneamente. Un dio magnificente e vulnerabile al tempo stesso. Anche per questo Federer ha portato a termine una missione che in precedenza era riuscita solo ai regimi teocratici o alla Apple: trasformare i fedeli in adepti, i simpatizzanti in fanatici. Nella sua carriera ha vinto tutto e in modo smisurato. Venti slam e un centinaio di tornei. Eppure è riuscito ad andare oltre la logica dell’accumulo di titoli. Ha trasformato la bellezza in praticità, ha dimostrato che il “quanto” si vince non pesa necessariamente più del “come” si vince. È stato così anche quando Nadal e Djokovic lo hanno sopravanzato nella contabilità dei successi. Perché il capovolgimento dei piani ha ingigantito il suo mito: il re si è fatto partigiano, non domina più, resiste. Fino a quando non è diventato nello stesso tempo il giocatore più forte della storia del tennis e un avversario battibile. Un paradosso. O forse no.

Per i suoi fan è stato un Rocky chiamato a battersi contro due Ivan Drago, uno più muscoloso, l’altro più calcolatore, per difendere un generico concetto di onore, di bene comune. Un compito che lo svizzero ha assolto restando persona senza mai sconfinare nel personaggio. Il suo avvicinamento al tennis è stato una scelta, non un’imposizione. Suo papà Robert e sua madre Lynette lo supportano amorevolmente. Niente a che vedere con l’isteria e la dittatura paterna subita da Andre Agassi o dalle sorelle Williams. La passione ha tempo per germogliare lentamente dentro di lui, anche se il giovane Roger lancia racchette, sale sugli alberi, urla come un ossesso. A 15 anni frequenta il Club tennistico di Ecublens e gli viene chiesto di esplicitare su un foglio di carta bianca il suoi obiettivi sportivi. Il ragazzo afferra una penna e scrive: “Fare irruzione nella rosa dei primi dieci tennisti al mondo e poi conquistare il primo posto“. Ancora non sa che in realtà si spingerà molto oltre i suoi sogni.

Una delle frasi più belle mai scritte su questo sport dice più o meno che giocare a tennis è come giocare a scacchi correndo. Si gareggia contro un avversario, ma anche contro sé stessi. È il concetto di bolla. Più si riesce a restare impermeabili ai propri pensieri e alle proprie paura e più ci si avvicina alla vittoria. Una volta che esplode la bolla, puff, ecco che inizia la discesa. Una delle doti più peculiari di Federer era la capacità di dilatare la sua concentrazione, di estraniarsi dal mondo circostante. Nel 2003, dopo aver vinto il primo titolo a Wimbledon, guarda in camera e dice: “C’è gente che quando vince non sorride. E c’è gente che dopo avere vinto, non smette di sorridere per settimane. Io sono il genere di persona che lascia scorrere le lacrime“. Qualche anno più tardi aggiungerà: “C’è stato un tempo in cui credevo fosse tutta una questione di tattica e tecnica. Eppure, ogni partita è diventata una questione mentale e certo, anche fisica. Cerco di forzarmi a non cadere in agitazione e restare positivo. Credo si tratti in assoluto del miglioramento principale di questi ultimi anni. Perché oggi, persino quando sono sotto pressione, riesco a rimanere lucido“.

Il suo tennis si è evoluto costantemente. Seguendo il logorio del suo fisico, adattandosi ai progressi dei suoi avversari. Eppure Federer è rimasto sempre fedele a sé stesso, senza mai tradire la sua essenza. Ora è arrivato il momento di dire basta. A suggerirglielo è stato anche il suo amato prato di Wimbledon. Prima nel 2019, con i due match point annullati da Djokovic. Poi nel 2021, con la sconfitta contro Hubert Hurkacz (con un incredibile 6-0 nel terzo set). “Essere stato l’ultimo ad aver battuto Federer….è una colpa che spero mi perdonerete”, ha scritto in questi giorni il polacco. Una gioia di riflesso che ha reso evidente una crisi irreversibile. Roger è finito addirittura fuori dalla classifica Atp per la prima volta negli ultimi 25 anni. D’altra parte Picasso diceva che “i 40 anni sono quell’età in cui ci si sente ancora giovani. Ma è troppo tardi“. Federer si è preso la soddisfazione di arrivare fino ai 41. Poi si è dovuto arrendere. Venerdì giocherà la sua ultima partita. Ma il suo tennis vivrà per sempre nello sguardo incredulo del pubblico. E in quello dei suoi avversari.

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