Ecologia della mente, è questa la lezione esistenziale – in direzione ostinata e contraria – di un maestro della musica e della canzone italiana, Mauro Pagani, nel racconto della sua vita appena uscito da Bompiani: Mauro Pagani. Nove vite e dieci blues. Un’autobiografia. È un libro da non perdere, per chi ama la musica e vuole entrare nelle sue pieghe, negli spazi fra le note: troveremo pepite, come la voce di una donna al mercato inserito in Creuza de mä perché vendeva il pesce in Re maggiore, stessa tonalità della canzone. “A life in twelve bars”, potremmo dire di Mauro Pagani come per Eric Clapton: un musicista che sogna e legge la realtà, come ogni poeta vero.

Le sue prime esperienze a Brescia, Milano e nella Riviera ligure, dopo un’infanzia da “ragazzino fuggiasco, solitario e sognatore”, poi il primo gruppo, “Gli Araldi”, nello scantinato di una forneria (diventeranno la mitica Pfm, la Premiata Forneria Marconi), l’incontro con Franz Di Cioccio e con la Numero Uno, la casa discografica di Lucio Battisti; il supporto, nei concerti italiani, a Joe Cocker e a band come i Procol Harum e i Deep Purple, svolta della carriera. La musica di Pagani e della Pfm è la colonna sonora della nostra giovinezza: La carrozza di Hans, Impressioni di settembre con Mogol (“una delle canzoni più belle che potesse comporre le liriche di una band prog di quegli anni” scrive Pagani); Storia di un minuto e il balzo al primo posto nella classifica discografica in Italia, quando Lelio Luttazzi, il venerdì alle 13, urlava alla radio “Hiiiit Paraaade!”.

Il resto, viene sempre da sé, direbbe Faber: a Londra nei primi anni Settanta – al Rainbow e alla Royal Albert Hall – il gemellaggio creativo con fuoriclasse come Demetrio Stratos, morto troppo presto (il progetto di un supergruppo rimase un sogno), un fantastico tour americano in Canada e negli States (concerti con i beach Boys e Carlos Santana, ad esempio), nella West Coast addirittura al Whisky a Go Go di Los Angeles, tempio dei Doors e tanti altri. All’alba degli anni Ottanta la scintilla con Fabrizio De Andrè, amicizia e sodalizio artistico durato 14 anni, tra tournée e capolavori come Le Nuvole (Pagani scrive ed esegue l’arrangiamento del celebre Don Raffaè) e Creuza de mä; Mauro sarà tra gli amici a sostenere la bara di Faber un triste mattino genovese del gennaio 1999: “Quel giorno avevo perso l’amicizia dell’uomo più profondo e acuto che avessi mai avuto la fortuna di conoscere. Unico e insostituibile, al quale ancora oggi, a più di vent’anni di distanza, penso spesso. Mi mancano la sua intelligenza, la sua libertà di pensiero, il suo inarrivabile senso dell’umorismo”.

Infine la casa di produzione Le Officine meccaniche, le colonne sonore per il cinema, il ruolo di direttore artistico in due festival di Sanremo e la “riedizione” di 24 canzoni di Guccini. All’inizio del 2020, l’obbligo di rallentare: “Qualcosa nel mio cervello si inceppò, offuscò i miei pensieri e si portò via la mia memoria”. Nel dolore, l’artista inquieto, curioso e “fuggiasco”, il bluesman abituato a improvvisare, trova pace: “Ora non corro più, cammino, come un viandante placido e curioso. Non ho più fretta, mi guardo intorno assaporando ogni secondo della mia nuova vita”. Meno improvvisazione e più studio, scrittura, rifinitura delle note e delle “alterazioni”: “Sto educando le mie mani a un futuro misterioso ma irresistibile da gatto mancino” dice, insegnando ai giovani che la musica è “una lingua portentosa per raccontare se stessi e un meraviglioso dono per la vita: il successo è una cosa che può arrivare o meno, ma la musica è per sempre”.

“È bellissimo trovarsi una sera con gli amici a mangiare una pizza, ma non sapete quanto è bello trovarsi a fare una suonata. Non per salire sul palco, ma per il piacere di suonare”. Un sogno, si parva licet, che chi scrive può dire di aver sfiorato grazie all’amico Walter Porro, che suona con lui e che ha arrangiato un mio testo, Geò, messo in musica da Giorgio Conte, e grazie a un altro bravissimo compositore, Luigi Cociglio. L’importante è diventare “una persona decente”, dice Pagani, l’artista, aggiungiamo noi, è fuggiasco come un lupo, deve restare nel branco e rispettare le regole della musica e delle dodici battute ma deve sapersene allontanare, a volte, per realizzare (ciascuno a suo modo) una “goccia di splendore”.

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