di Francesco Schettino

Per non venire abbindolati dalla sirene dei partiti che ad ogni tornata suonano a tutto fiato per poi, alla fine della giostra elettorale, avvertire di nuovo e per l’ennesima volta la sgradevole sensazione di essere stati ancora “impallati” – secondo l’espressione di Vittorio Gassman – è sufficiente fare due semplici e decisive considerazioni.

La prima: ci sarebbe tanto accanimento dei candidati se non andassero a caccia di una lussuosa prebenda di 15mila euro mensili, oltre auto blu e privilegi vari, ma percepissero (come dovrebbero) emolumenti a misura d’uomo normale?

La seconda: fate caso al numero e alle sigle dei partiti che, nel tempo, si sono avvicendati sul palco del teatrino. Sono tali e tanti che neppure si possono tenere a memoria. Mutazioni, trasfigurazioni, nuovi brand, cambi di divisa, modificazioni di simboli. Una congerie di varianti apparse e scomparse in un bailamme vorticoso di voci discordanti. Ciascuna presentatasi come l’unica capace di rappresentare il popolo sovrano, interpretarne le esigenze, risolvere i problemi del Paese, assicurare durevole prosperità alle famiglie nonché incrementare produttività alle imprese. Il trionfo delle autoreferenze propinate a mo’ di autocertificazioni Uno spettacolo pirotecnico di fuochi fatui accesi giusto per procacciarsi i voti, per essere poi opacizzati o spenti.

La fiera delle promesse luccicanti imperniate su “dirò” e “farò” che – attenzione – non sono tempi futuri ma futuribili. Dando luogo a un tramestio confuso come usano fare i teatranti che tra un numero e l’altro corrono in camerino a cambiarsi d’abito per poi ritornare al cospetto del pubblico, incipriati nelle nuove livree, per esibirsi in una nuova pochade.

Nietzsche parlerebbe dell’eterno ritorno. Modernamente: l’eterna sceneggiata.

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