Nel giorno delle votazioni, propongo qualche riflessione su com’è andata, nel complesso, questa rapida e inedita campagna elettorale. Senza prendere parte, ovviamente.
Saturazione. È stata breve, la più breve di tutte, ci ripetono. Eppure ci è parsa lunghissima, infinita. Perché? Perché siamo stufi marci. Ci hanno inseguiti, quasi perseguitati. Hanno usato ogni mezzo possibile, dalla tv alle piazze, dalle affissioni a TikTok. Ci hanno importunati perfino sotto l’ombrellone, quando non volevamo saperne. Accade in tutte le campagne, certo. Ma in questo caso abbiamo pagato la brevità con la densità. Tanto, troppo e tutto insieme. È finita. Che sollievo.
Mediocrità. Il livello medio della campagna è stato basso. Molto. Nessuna originalità, né tanto meno creatività. Solite dichiarazioni ai media. Solite polemiche. Solite accuse reciproche. E slogan banali: “Credo”, “Pronti”, “Scegli”, “Dalla parte giusta”, “L’Italia sul serio” e via blaterando. Parole a caso, che si dimenticano subito. Con l’aggravante che sono perfettamente interscambiabili. Prendi lo slogan di Letta e lo fai dire a Meloni, prendi quello di Calenda e lo metti in bocca a Conte, Meloni, Salvini o Letta. E viceversa. Scambiali come vuoi, tanto è uguale. Parole vuote.
Astrazione. Come accade spesso da oltre quindici anni, il linguaggio che hanno usato i leader è stato tendenzialmente troppo astratto, cioè poco collegato alla realtà e ai problemi di tutti i giorni. Soprattutto quello del centrosinistra. Altalenante quello del M5S e del cosiddetto terzo polo. Più concreto il linguaggio del centrodestra, soprattutto quello di Giorgia Meloni. Il che inciderà sull’esito delle elezioni, naturalmente. Alle persone bisogna parlare in modo diretto e preciso, facendo esempi concreti e connessi alla vita di tutti i giorni, anche su temi e problemi enormi come ambiente, diritti, guerra, salute. Senza saltare passaggi logici e guardare tutti dall’alto in basso, come spesso fa il centrosinistra (vedi Letta). Ma senza nemmeno trattare elettori ed elettrici come bambini deficienti, come spesso fa il centrodestra (vedi Salvini e Berlusconi).
TikTok. Forse è l’unica vera novità mediatica della campagna elettorale: per la prima volta i politici hanno usato TikTok. Evviva. L’hanno fatto però in malo modo, rendendosi spesso ridicoli, e ci sono entrati col pregiudizio che fosse solo un social di intrattenimento per giovani, il che è falso, perché TikTok è pieno di corsi di lingua e di formazione, di presentazioni di libri e iniziative culturali. Avrebbero potuto, insomma, trovare modi creativi di parlare ai più giovani di temi concreti a loro vicini, ad esempio di ambiente, tanto per dirne uno. E invece no. Solo i loro monologhi, l’ennesimo modo per saturarci della loro faccia. E il successo di Berlusconi? Povero Berlusconi: ormai è il meme di se stesso, una parodia vivente. E su TikTok i meme e le parodie vanno alla grande.
Effetto donna. Piaccia o non piaccia, si parteggi per lei o meno, questa competizione elettorale si distingue per essere stata la prima, nella storia della Repubblica, in cui si prende seriamente in considerazione che possa vincere – e governare – una donna. Il che è comunque una buona notizia, visto che l’Italia è al 63esimo posto nell’ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum. Che poi Giorgia Meloni dica cose a favore delle donne è tutta un’altra questione. Si sforza di non dirne a sfavore (o di non dirne a sfavore in modo troppo evidente). Ma usa toni e modi tipici della comunicazione politica più virilmente aggressiva, anche quando cerca di addolcirsi, per non turbare l’elettorato di centrodestra più moderato.
È tutta colpa o merito suo? Mah. È tipico delle donne che riescono ad affermarsi in un mondo a dominanza nettamente maschile, come quello della politica. Accade anche nelle aziende, a certe manager rampanti. Se non fai così, non ti affermi. Che poi a questo possano seguire politiche serie contro la disoccupazione femminile, contro gli stipendi più bassi per le donne, contro il soffitto di cristallo, è tutto da vedere.