Se il tratto più evidente, che funge da spartiacque dell’ultimo cinquantennio, è l’ostentata insofferenza degli abbienti nei confronti degli indigenti (vulgo, “i poveracci”), possiamo ritrovarne l’impronta in questa campagna elettorale che termina oggi. Tra la rimozione e l’infierire deliberatamente, per cui Matteo Renzi – come ci ricordava opportunamente il numero di FqMillennium di agosto – si propone come interprete politico del risentimento sprezzante di chi ha i piedi al caldo, sentenziando “voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire”.
Pendant di quanto dichiara un altro spregiudicato arrampicatore sociale, Flavio Briatore, il capitano d’industria la cui massima intuizione imprenditoriale è stata quella di unire in un solo brand la parola napoletanissima “pizza” con l’anglo-milanese “crazy” – per cui “sono i ricchi a creare posti di lavoro”. Nel suo caso per servette e sguatteri, rigorosamente precarizzati.
Uno stato d’animo oscillante tra il disprezzo e la pietà, che rivela variazioni nello spirito del tempo ben più serie degli sproloqui di due personaggi comici. Qualcosa che è maturato nei piani alti della società occidentale, intercettato via via da quanti perseguivano il proprio accreditamento nel club del privilegio, fino alla bassa manovalanza della politica e degli arricchiti non-si-sa-bene-come.
Difatti, se al tempo del Sessantotto il ceto imprenditoriale era sotto il tiro della critica sociale (gli “autunni caldi”), nei decenni successivi l’assedio è stato spezzato e ora i Top finanziari si inorgogliscono della loro genetica superiorità (l’atteggiamento che negli ambienti di Confindustria si traduce nell’arrogante risposta “antindustriale!” a ogni pur sommesso addebito). Una mutazione di mentalità che viene da lontano: negli anni Venti-Trenta del secolo scorso la borghesia viveva nel terrore di essere spossessata dei propri beni da parte del popolo (per gli uni la paura della rivoluzione, per gli altri quella del colpo di stato).
Se le dittature di destra furono la contromossa plutocratica in larga parte dell’Europa, nel mondo anglosassone prevalse la sintesi keynesiano-fordista; il compromesso storico tra borghesia imprenditoriale e lavoro organizzato: l’affermarsi nell’Occidente capitalistico di economie nazionali trainate dall’impresa pubblica, politica dei redditi e programmazione. Dal punto di vista – appunto – politico, il salvataggio del matrimonio tra capitalismo e democrazia, che dal New Deal arriva fino a tutta l’epoca kennediana del cosiddetto “ottimismo di governo”.
Equilibrio delegittimato dal capitale dopo il 1973 per ricostruire margini di profitto non consentiti dall’ordine welfariano: come dice l’ex direttore del Max Planck di Colonia Wolfgang Streek, “la de-democratizzazione del capitalismo attraverso la de-economizzazione della democrazia, incompatibile con il neo-liberismo”. Stante l’impossibilità del capitale di fidarsi di istituzioni largamente guidate da socialdemocratici, la scelta fu quella di un ritorno al mercato, presunto ottocentescamente capace di autoregolarsi. In una serie di passaggi che scardinarono la forza della precedente controparte: i lavoratori di fabbrica.
Sicché nel corso degli anni Settanta l’inflazione andò alle stelle, il suo contenimento nel decennio successivo produsse l’indebitamento pubblico, cui si cercò di ovviare sostituendolo con l’indebitamento privato: la politica del debito drogato a mezzo acquisti a credito e della flessibilizzazione/precarizzazione, esplosa insieme alle bolle finanziarie a partire dal 2008. Per taluni il segnale della crisi terminale del tardo capitalismo.
Ma un ceto politico che vive nel presente immobile e si nutre di trovate consulenziali esorcizza come “populista” ogni ragionamento che demistifichi il luogo comune, continua a credere nella cornucopia della ricchezza creata per via monetaria e si aggrappa ai maghi della finanza, ripetendo i jingle graditi a lorsignori. Nella convinzione dell’insignificanza degli sfigati (copy Renzi) o sdentati (copy Hollande). Ossia fidando nella rassegnazione politica degli strati inferiori e disprezzando provvedimenti come il reddito di cittadinanza, irriso malignamente come “voto di scambio” nel dilagare dell’impoverimento (seppure bisognoso di una revisione che lo liberi dal collegamento con l’occupabilità).
Per questo si spera che l’annunciata ripresa elettorale dei 5S, sempre più “partito di Conte”, dia un segnale in controtendenza: la finalmente raggiunta maturità del leader, che sgombri il nascente partito dichiaratamente populista, in lotta contro le disuguaglianze e per l’ambiente, dalle mattane sempre imbarazzanti e spesso inquietanti del Garante (che già pencolava dalla stagione del Vaffa tra l’Anpi e Casa Pound).