Come ricorda il saggio c’è un tempo per ogni cosa. Un tempo per tornare e un tempo per ripartire. Sarà pur vero che, in fondo, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Si trova forse, tra gli umani, qualcuno che possa dire ecco questa è una novità? C’è invece uno spettro che si aggira per l’Europa e non è quello preconizzato da Karl Marx e Friedrich Engels nel loro manifesto del 1848. Non è quello del comunismo, semmai quello del “già visto”, come l’afferma senza sconti l’ignoto Qoelet nel libro omonimo. Un’aria di solito che spira sui manifesti elettorali e l’interpretazione della politica nazionale e internazionale.
Sull’uso e l’abuso dei migranti nel Mediterraneo nel consueto corteo funebre dei naufraghi abbandonati. Nella rassegnazione per la guerra prossima ventura che si avvicina con l’eutanasia dell’Occidente. Con la programmata liquidazione economica e sociale delle famiglie e delle piccole imprese del continente europeo.
Continua, con effimera pausa commerciale, l’igienizzazione della società con le sue diuturne paure e menzogne. Le campane elettricamente programmate senza più i campanari che perdevano l’udito col tempo, dopo aver ritmato matrimoni, funerali e feste comandate. Le chiese con le distanze da rispettare e la spruzzata sulle mani prima di comunicare con l’assoluto nel tempo. La sconcertante impuntualità dei treni di minore importanza con i biglietti più leggeri rispetto a prima. I campionati di calcio e la trasmissione pagante delle partite che accompagnano con metodica strategia ogni giorno della settimana. Si giocava la domenica e i mercoledì per le competizioni internazionali perché gli altri giorni della settimana erano lavorativi. Adesso si finge un’aria di festa che consente di andare allo stadio anche di lunedì notte. Tanto il lavoro si è fatto funzionale all’economia dello spettacolo che le morti bianche assediano nel calendario.
Si soffre, di nascosto e in silenzio, di solitudine. La solitudine “del cittadino globale”, come profetizzava il defunto Zygmunt Bauman si coltiva con ostinazione, smantellando legami fisici per privilegiare l’insostenibile ‘leggerezza’ delle distanziazioni sociali e le discriminazioni sanitarie. Aumentano, per converso, in quantità e qualità le cure per gli animali, specie di razza canina. Essi hanno acquistato col tempo privilegi che non pochi cittadini locali o stranieri vorrebbe poter usufruire. Cibo nutriente perché vitaminizzato, psicologi specializzati in caso di depressioni canine, cliniche adatte e, per quelli in preda a malinconie amorose, bed and breakfast in zona panoramiche e arieggiate. Abiti canini confortevoli per tutte le stagioni dell’anno e, dulcis in fundo, cimiteri riservati con tanto di compagnie funebri specializzate.
Chi giunge nel Bel Paese da un altrove dove il cibo, la scuola e la salute sono occasionali, non può non provare tristezza.
Partire allora, per chi scrive, dopo due mesi passati in Liguria, è come tornare alla straordinarietà della vita. Tornare dove nulla è scontato o garantito. Dal giorno che nasce alla sera che incombe improvvisa per mancanza di luce, razionata per un guasto alla centrale elettrica. Mangiare, bere, curarsi, provare a mandare i figli a scuola, pregare di trovare un lavoro o di avere un altro figlio e che arrivi puntuale il vento con la sabbia che portano i ricordi di altri tempi. Si torna dove la vita, tuttavia, non è “sotto controllo” di algoritmi che pensano quello che è meglio per gli umani che si sbagliano quando devono votare.
Fortuna volle che, nella città di Chiavari, chiedessi ad alcuni bambini cosa vorrebbero portassi ai bambini che rincontrerò nella comunità che ho lasciato a Niamey, in Niger. Una bimba ha risposto dicendo di portare loro il messaggio che “noi gli vogliamo bene“. Questa frase, assieme a tutti volti amici senza maschere, è tutto ciò che metterò nella valigia.