Questa è la mia host mum, la didascalia si riferisce a una donna che, braccia tese verso l’alto, mostra un cartello esplicito: “Say her name – Masha Amini – Women, life, freedom”.

L’ha spedita da Vancouver, insieme a non so più quanti video e quante foto, mia figlia, quando qui da noi erano le quattro del mattino: da poco Giorgia Meloni era con certezza la nuova scelta espressa dall’Italia.

La mia 17enne di riferimento, in Canada per il programma del quarto anno all’estero, documenta così la sua partecipazione a una manifestazione per l’Iran e per le donne, per la loro libertà, per il loro corpo, capelli compresi, sciolti, al vento, arruffati. Un impegno che le avevo intuito sotto pelle fin dai primi venerdì dei Fridays For Future e che oggi esplode a distanza. E non solo perché la famiglia che la ospita è di origine iraniana, non credo sia solo quello. Sul tavolo dei diritti da difendere ci sono il ricordo di Masha, morta dopo essere stata arrestata, la scorsa settimana, dalla polizia morale iraniana, e quello di Hadith Najafi, la ragazza bionda simbolo dei cortei che a 20 anni che si legava i capelli, senza velo, prima di una manifestazione contro il regime.

Due donne, giovanissime, che mostravano nei fatti la loro richiesta basica: legarsi i capelli (il gesto, la normalità) e manifestare la loro idea (ossia la loro volontà).

Discorsi che sono riemersi anche nella sua famiglia temporanea d’Oltreoceano, una coppia di iraniani da sempre residenti a Vancouver che oggi destinano una stanza della loro casa a lei e una a una sua coetanea tedesca.

Mentre in Italia una giovane donna bionda e con i capelli lunghi coronava il suo sogno di sempre in un Paese che le ha consentito di parlare a volto scoperto, di esprimersi, di far sentire la sua voce, dall’altra parte del pianeta (così come in Francia solo due giorni fa) si scendeva in strada e si intonavano cori – compreso un Bella ciao con l’accento anglo della British Colombia.

Un filo rosso a distanza di fuso e di chilometri infiniti collega storie di donne così uguali e così distanti.

Sono appena le sei del mattino, leggo il messaggio, guardo il video e lo richiudo. Poi però ci torno su. Le elezioni italiane, che pure hanno messo in luce la donna, hanno fatto sì che in una settimana così densa di numeri, di sondaggi a un certo punto taciuti e di proiezioni adombrate di sottecchi, in secondo piano passassero le altre. Quelle che i diritti non possono prometterli agli altri perché ancora non ne godono loro. Masha, Hadith. E Saman Abbas. Anche lei è stata protagonista di questa settimana di frenesia elettorale. Lei, e la sua vita che – oggi lo sappiamo – è finita per mano di chi più di ogni altro doveva tutelarla: la famiglia. Donna, vita, libertà. Un trittico che in alcune zone del mondo è ancora ipotesi di lavoro e che in Occidente diamo per scontato, sbagliando. Perché Saman è stata uccisa qui, non dobbiamo mai dimenticarlo.

Faccio scorrere ancora una volta davanti a me le immagini della manifestazione di Vancouver: ce ne sarebbe stato bisogno anche qui. Se non altro per dire a una donna, giovane e anche potente, che il segno da lasciare passa per le ferite e le cicatrici che facciamo finta di non vedere, quasi che ignorandole non esistano più. Una donna, una madre, cristiana o no che sia, ha il dovere, oggi che può, di difendere la libertà e, laddove è urgente, di tutelare le libertà, tutte le libertà.

E’ quasi giorno quando il caffè diffonde il suo odore in tutta casa. E penso di aver sognato un po’, o forse no. Poi arriva il momento dei giornali e leggo una Dacia Maraini che mi indica la strada. Un percorso che porta alle donne, alla vita, alla libertà.

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