Sull'isola sempre pronta a dare uno strappo - avanti o indietro - alla storia politica del Paese vince l'ex presidente del Senato. Nel 2014 fu archiviato per concorso esterno a Cosa nostra nonostante fossero "emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo": ma per il giudice non bastavano per portarlo a giudizio. Il neo governatore è ancora oggi sotto processo a Caltanissetta per violazione di segreto
Trent’anni dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio i siciliani hanno eletto come loro governatore un uomo che aveva relazioni con personaggi legati a Cosa nostra. Quei rapporti c’erano, ma per il giudice non bastavano per portarlo un processo. E d’altra parte per sbarrare la strada della vittoria a Renato Schifani non è bastato neanche il fatto che il neo governatore della Sicilia sia ancora oggi imputato: è a giudizio in uno dei filoni del cosiddetto caso Montante, cioè uno degli intrallazzi più oscuri della storia recente della Repubblica, che vede alla sbarra investigatori di spicco della Dia, ex capi dei servizi segreti e 007. Un processo che negli ultimi tempi è scomparso dai radar ma che ora si spera venga di nuovo illuminato dall’attenzione pubblica, visto che ha tra i suoi imputati il nuovo governatore della Sicilia. L’incomprensibile e irredibimibile Sicilia, sempre pronta a dare uno strappo alla storia politica del Paese. Se stavolta lo strappo sia in avanti o indietro, spetterà al lettore – e all’elettore – stabilirlo.
I meriti di Schifani? “Palermitano e di Forza Italia” – L’unica cosa certa è che alla fine a spuntarla è stato l’ex presidente del Senato, l’uomo che Giorgia Meloni ha scelto tra le file di Forza Italia per sostituire Nello Musumeci. All’inizio, nel partito di Silvio Berlusconi, avevano masticato amaro: Gianfranco Miccichè avrebbe voluto candidare Stefania Prestigiacomo. Calati juncu chi passa la china, dice un antico proverbio siciliano. E alla fine il vicerè di Berlusconi in Sicilia si era calato e si era fatto piacere l’ex presidente del Senato: tutto pur di cacciare l’odiato Nello Musumeci, “fascista catanese“, come lo aveva definito in un’intervista. E allora quali sono le qualità che Miccichè ha riconosciuto a Schifani nel giorno della vittoria? “Palermitano e di Forza Italia“. Tanto è bastato, nell’isola del Gattopardo che non dimentica mai neppure lo sgarbo più piccolo ma che soffre ciclicamente di clamorose amnesie. Arrestano due candidati di centrodestra – uno per mafia, l’altra per corruzione – a due giorni dalle elezioni? “Stavolta è toccato alla nostra coalizione, ma può succedere anche ad altri partiti”, è il minuscolo commento di Schifani, nel mutismo quasi tombale di tutti i leader della sua coalizione. Un silenzio talmente inquietante che tocca a Maria Falcone dirsi sbigottita perché “dopo le stragi, la politica non ha ancora preso coscienza della necessità di tenere alta la vigilanza per scongiurare le infiltrazioni mafiose, cominciando da una scelta oculata dei candidati“.
La scalata del “principe del foro del recupero crediti” – I candidati, però, non si eleggono da soli: ci vogliono i voti. Se Schifani ha vinto non è solo merito dall’exploit di Fdi, che sull’isola è stato frenato dal boom dei 5 stelle, ma soprattutto perché i siciliani sono tornati in massa a votare per Forza Italia. Come venticinque anni fa, quando il neo governatore usciva dall’anonimato siciliano e volava a Roma, per occupare uno scranno a Palazzo Madama, vicino ai tanti penalisti di grido scelti da Berlusconi per riempire il Parlamento. Filippo Mancuso, l’unico ministro che sia mai stato sfiduciato direttamente dalle Camere, lo fulminò con una definizione destinata a rimanergli appiccicata addosso: “Il principe del foro del recupero crediti“. Schifani, avvocato che all’epoca era poco noto fuori dai confini siciliani, non la prese bene. Ma continuò la sua scalata interna al partito di Arcore: calati juncu chi passa la china. Divenne capogruppo al Senato, quindi fu il primo dei berluscones, il più berlusconiano tra i berlusconiani, quello che difendeva il capo con più vigore di tutti. Ed è forse per questo motivo se ancora oggi Berlusconi ha deciso di puntare su di lui per riprendersi la Sicilia. E fa niente se negli anni peggiori, quando l’uomo di Arcore fu espulso dal Senato dopo la condanna definitiva per frode fiscale, Schifani fu uno di quelli che tradirono, passando dalla parte di Angelino Alfano. La fuga durò meno di tre anni, dal 2013 al 2016: quando la stella del “leader senza quid” stava ormai per offuscarsi, l’ex presidente del Senato tornò a bussare alla corte di Arcore e venne riammesso all’ovile di Forza Italia. D’altra parte si trattava pur sempre dell’uomo che ha dato il suo nome al lodo Schifani, la norma ideata per stoppare i processi alle cinque più alte cariche dello Stato, proprio mentre Berlusconi – in quel momento presidente del consiglio – era sotto processo per il caso Sme. Il lodo sarà poi bocciato dalla Consulta, ma questo non impedirà al suo ideatore di scalare le istituzioni fino alla presidenza del Senato: la seconda carica dello Stato. Non male per il “principe del foro del recupero crediti“.
L’indagine per concorso esterno – Erano gli anni in cui la procura di Palermo, dopo una prima archiviazione negli anni ’90, aveva ripreso a indagare sui suoi rapporti con Cosa nostra. Un’inchiesta delicatissisma e per questo motivo il nome di Schifani era stato iscritto nel registro degli indagati con uno pseudonimo: Schioperatu. Un nome inventato per metà: le prime tre lettere erano infatti derivate direttamente da Schifani, il resto invece era stato preso in prestito dal cognome di una persona indagata in precedenza e poi archiviata. Lo stesso epilogo dell’inchiesta sull’ex presidente del Senato. Nel 2014 il gip Vittorio Anania aveva archiviato le accuse a suo carico, sottolineando che “in definitiva sono emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo in cui lo Schifani era attivamente impegnato nella sua attività di legale civilista ed esperto in diritto amministrativo”. Quelle relazioni intrattenute dall’ex presidente del Senato, secondo il giudice, però “non assumono un livello probatorio minimo per sostenere un’accusa in giudizio tanto più che, a prescindere dalla consapevolezza dell’indagato dell’effettiva caratura mafiosa dei suoi interlocutori, tali condotte si collocano per lo più in un periodo ormai lontano nel tempo (primi degli anni ’90) fatti per i quali opererebbe, in ogni caso, la prescrizione”. Tradotto: Schifani ha avuto rapporti con uomini vicini a Cosa Nostra, che però non bastano per portarlo a processo per concorso esterno alla mafia. Non era provato infatti che “il principe del recupero crediti” fosse consapevole della caratura criminale dei suoi interlocutori. E anche se lo fosse stato, quei fatti erano ormai troppo lontani nel tempo e quindi già prescritti.
Cosa c’era nelle carte – Già nel settembre del 2013 i pm di Palermo Nino Di Matteo e Paolo Guido (oggi rispettivamente consigliere uscente del Csm e procuratore aggiunto) avevano chiesto di archiviare l’indagine a carico del senatore berlusconiano, ma il gip Piergiorgio Morosini aveva respinto la richiesta ordinando nuove indagini. Tra l’ottobre e il novembre del 2013, quindi, i pm avevano interrogato due collaboratori di giustizia, Salvatore Lanzalaco e Pietro La Chiusa. “Entrambi furono a diverso titolo (il Lanzalaco quale tecnico progettista e il La Chiusa quale imprenditore partecipante all’Ati aggiudicataria dei lavori) protagonisti dell’imponente appalto per la cosiddetta metanizzazione della città di Palermo”, spiegavano i pm nella richiesta d’archiviazione poi accolta dal gip Anania. È proprio Lanzalaco a riferire agli investigatori il ruolo che avrebbe giocato Schifani, all’epoca soltanto un avvocato, nell’appalto per la metanizzazione del capoluogo siciliano. “Lanzalaco e La Chiusa – si leggeva sempre nella richiesta d’archiviazione – hanno riferito e descritto il ruolo cruciale svolto dall’odierno indagato (allora nella veste di legale dell’ente appaltante) in primo luogo nel condizionamento della gara per favorire l’aggiudicazione all’Ati già prescelta e, nelle fasi successive, nella individuazione delle singole ditte che, secondo le indicazioni delle famiglie mafiose competenti per territorio, avrebbero dovuto eseguire i lavori in sub appalto o essere comunque coinvolte attraverso le forniture di beni o servizi”. Secondo Lanzalaco, poi, lo stesso Schifani gli avrebbe fornito l’elenco delle ditte che per volere delle famiglie mafiose palermitane avrebbero dovuto aggiudicarsi i lavori in sub appalto della gigantesca opera pubblica. “Schifani – spiegano i pm – gli avrebbe fornito appunti manoscritti, alcuni asseritamente redatti dallo stesso Schifani, contenenti l’elencazione delle ditte cui assegnare il sub appalto secondo le indicazioni ricevute dalle famiglie mafiose”. Le verifiche degli inquirenti però non avevano portato altro: mai trovati gli appunti con l’elenco delle ditte che sarebbero stati scritti dall’ex presidente di Palazzo Madama. Anche perché i fatti raccontati da Lanzalaco, in ogni caso, si riferivano a un periodo di tempo che va dalla fine degli anni ’80 ai primissimi anni ’90: e quindi il reato di concorso esterno si era già prescritto.
Sostiene Totò Riina – Agli atti dell’inchiesta c’era anche un’intercettazione di un colloquio tra Totò Riina e la sua famiglia, raccontata sul Fatto Quotidiano da Marco Lillo. Il 10 giugno del 2008 nella sala colloqui del carcere di Opera il capo dei capi aveva incontrato la moglie Ninetta Bagarella e la figlia Lucia. A un certo punto la famiglia Riina parlava di ciliegie e ‘u Curtu aveva sostenuto che le migliori in Sicilia venivano da una piccola cittadina non lontana da Corleone, Chiusa Sclafani. “Il paese di un senatore siciliano”, diceva Riina. “Il paese… di… uno di Chiusa Sclafani …..un senatore….. Forza Italia!. Il paese Chiusa Sclafani e del senatore Schifani”. “Chiusa Sclafani?”, avevano chiesto la figlia Lucia e la moglie Ninetta. E Riina aveva risposto: “Sì il paese del senatore…è… una mente è!“. In effetti – come facevano notare gli inquirenti – il padre di Schifani era originario proprio di Chiusa Sclafani, un paesino famoso per la sua sagra delle ciliegie. Il 18 novembre del 2013 Riina era tornato sull’argomento. Questa volta, però, non durante un colloquio coi familiari – che per i mafiosi sono notoriamente intercettati – ma durante una conversazione con Alberto Lorusso, suo compagno di ora d’aria. Quel dialogo era registrato dalla procura ma Riina non poteva saperlo. Parlando dei paesi che erano presenti all’interno del mandamento di Corleone, il capo dei capi si vantava: “Abbiamo il paese ciliegiaro, questo senatore, il senatore che abbiamo, che abbiamo alla Camera, il paese di lui era mandamento nostro…”. Nella richiesta di archiviazione, i pm sottolineavano che “lette congiuntamente con le precedenti, le espressioni pronunciate da Riina il 18 novembre 2013 appaiono ulteriormente indicative della (ritenuta) affidabilità e vicinanza dell’odierno indagato all’organizzazione mafiosa, e ciò in ragione sia del chiaro tono confidenziale usato dal detenuto nel riferirsi al ‘senatore’, sia del contesto nel quale il Riina citava l’indagato, posto che egli stava riferendosi analiticamente alla composizione territoriale del mandamento mafioso di Corleone”.
L’intercettazione del boss – Nelle vecchie indagini su Schifani, erano presenti poi tutta una serie di atti relativi a personaggi poi condannati per fatti di mafia. Molte di quelle storie furono raccontate da Peter Gomez e Lirio Abbate nel libro I Complici. Come il dialogo tra Simone Costello, uno dei colonnelli di Bernardo Provenzano, e Nino Mandalà, considerato il capomafia di Villabate e padre di Nicola, il mafioso che curava la latitanza del boss corleonese e che oggi sta scontando l’ergastolo. “Simone, hai presente che Schifani, attraverso questo… aveva chiesto di avere un incontro con me, se potevo riceverlo. E io gli ho detto no, gli ho detto che ho da fare e che non ho tempo da perdere con lui. Quindi, quando ha capito che lui con me non poteva fare niente, si è rivolto al suo capo Enrico La Loggia che, secondo lui, mi dovrebbe telefonare. Ma vedrai che lui non mi telefonerà. Mi può telefonare che io, una volta, l’ho fatto piangere?”, diceva Mandalà intercettato. Si riferiva all’ex ministro degli Affari regionali del governo Berlusconi, figlio di Giuseppe La Loggia, ex governatore e avvocato molto noto a Palermo. E’ proprio nello studio legale La Loggia che andò a fare pratica il giovane Schifani. All’epoca Mandalà diceva di essere stato molto adirato con La Loggia junior, reo di non avergli telefonato dopo l’arresto del figlio Nicola. Il boss di Villabate sosteneva di aver affrontato in modo duro il politico berlusconiano: “Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui si è messo a piangere”. La Loggia, all’epoca, ammise l’incontro ma ne diede una versione molto diversa. Mandalà sostenne invece di aver millantato.
Il caso Montante – E se le accuse per mafia sono state tutte archiviate, ancora pendente davanti al tribunale di Caltanissetta è invece il processo in cui Schifani è accusato di violazione di segreto. Il procedimento è uno dei tronconi dell’inchiesta su Montante, l’ex numero uno di Confindustria Sicilia, per anni considerato un paladino della legalità e dell’antimafia, poi condannato a 8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. Il processo a Montante si è celebrato col rito abbreviato. Schifani, invece, ha scelto il rito immediato ed è a giudizio dal 2019 insieme ad altre 16 persone, tra cui ci sono anche l’ex capo dei servizi segreti Arturo Esposito e il tributarista Angelo Cuva. I due procedimenti sono stati di recente riuniti in un unico processo con 30 imputati: secondo le accuse Schifani avrebbe rivelato a Cuva notizie coperte da segreto – apprese dall’ex direttore dell’Aisi Esposito che a sua volta le aveva avute da altri appartenenti alle forze di polizia – relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di Montante e del colonnello dei carabinieri, Giuseppe D’Agata. Interrogato dai pm il 25 maggio del 2018, l’ex presidente del Senato aveva deciso di non rispondere. Si è, però, sempre dichiarato innocente. Ora potrà farlo da una poltrona molto comoda: quella al piano più alto di palazzo d’Orleans, la residenza del governatore della Sicilia che in passato fu dimora di Luigi Filippo, re di Francia e Maria Amalia, sovrana di Portogallo. Altro che principe del recupero crediti.