Ci sono serie che si prestano al binge watching, la modalità di guardare in maniera compulsiva tutte le puntate consecutivamente (un po’ abbuffata, un po’ maratona casalinga), e altre che invece vanno dosate con attenzione per evitare il surplus di ansia. È il caso di Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer, lanciata da Netflix pochi giorni fa, serie in dieci episodi che racconta la parabola incredibile e agghiacciante del serial killer Jeffrey Dahmer, conosciuto in tutto il mondo come “il mostro di Milwaukee”. A firmarla è quel gran genio di Ryan Murphy, “re Mida” della serialità in streaming, firma di successi globali come Nip/Tuck, Glee, Pose e Hollywood, che da sceneggiatore e ideatore ha già ampiamente esplorato le atmosfere dark e thriller in titoli come American Horror Story o quel gioiellino assoluto di Ratched (che purtroppo, stando alle ultime dichiarazioni della sua protagonista, la bravissima Sarah Paulson, potrebbe non avere una seconda stagione).
Questa volta Murphy e il sodale Ian Brennan hanno deciso di raccontare la storia di Jeffrey Dahmer, considerato uno dei più efferati serial killer degli Stati Uniti: nato a Milwaukee nel 1960, dopo un’infanzia difficile e l’innesco di problemi psichici compì il suo primo omicidio ad appena 18 anni e in totale uccise 17 adolescenti e giovani uomini prima di essere arrestato dalla polizia e poi condannato (morì in carcere nel ’94 dopo essere stato preso a bastonate in testa da un altro detenuto). Ad interpetrarlo Evan Peters – uno degli attori feticcio di Murphy -, il quale ha fatto un lavoro clamoroso per calarsi nei panni di Dahmer: lo si capisce sin dalle prime scene quanto abbia scavato nei tic, nei movimenti e nelle profondità delle turbe psichiche del killer, riguardandosi vecchi filmati del processo e delle interviste a Dahmer. La serie comincia dalla fine, dalla sera del luglio del 1991, quando la polizia di Milwaukee entrò nell’appartamento del trentunenne Jeffrey Dahmer solo perché una delle sue “prede” riuscì a scappare a convincere i poliziotti a seguirlo in quell’appartamento degli orrori dove trovano di tutto: una testa mozzata nel freezer, teschi e ossa nascoste ovunque, genitali in una pentola e un bidone pieno di acido con pezzi di corpi umani in decomposizione. La scena della vittima che cerca di fuggire dall’abitazione è un misto di splatter, claustrofobia e viaggio all’inferno.
Lì inizia un viaggio a ritroso, un percorso pieno di colpi di scena sulla “lucida follia” del protagonista ma soprattutto di dubbi e domande sull’incompetenza degli inquirenti e sull’omertà dei vicini: nei paraggi della sua abitazione erano infatti spariti diversi sei ragazzi, la notte si sentivano pianti e grida provenire dal suo appartamento, da un anno almeno tutti notavano in lui atteggiamenti anomali ma nessuno è mai intervenuto. In quella casa Dahmer prima drogava le sue vittime, poi abusava sessualmente di loro, squartava i loro corpi e commetteva inimmaginabili atti di necrofilia e di cannibalismo. Ecco spiegato perché Dahmer non è una di quelle serie da binge watching compulsivo: la tensione resta altissima sempre, il tempo per riprendere fiato è poco, la sottile linea rossa del turbamento è una costante. Quando pensi che il climax abbia toccato il vertice massimo, l’asticella si alza ancora. Per chi ha già visto una serie firmata da Ryan Murphy non è di certo una novità: non sai mai ciò che sta per accadere e vuoi restare lì incollato per capirlo, per stupirti e pure per incazzarti. E ci si incazza spesso guardando Dahmer, perché è davvero impossibile non chiedersi come nessuno abbia potuto spezzare quella catena di delitti spietati commessi per oltre un decennio (tra il ‘78 e il ’91), tra razzismo sistemico – quasi tutte le vittime, adescate nella comunità gay, erano afroamericane – e incompetenza degli inquirenti che non indagarono su Dahmer neppure dopo la condanna per abusi sessuali su un minore avvenuta nel 1988. Anche per questo l’unica regola di Murphy, svelata dallo stesso Evan Peters, è stata chiara: la storia non viene mai raccontata dal punto di vista di Dahmer così che il pubblico la possa guardare con un occhio esterno, senza mai poterlo compatire ma piuttosto comprendere che cosa abbia innescato quella spirale atroce di dolore e omicidi feroci. L’obiettivo era quello di cercare di raccontare la storia del modo più autentico possibile, rispettando le vittime e le loro famiglie. Murphy e il suo team ci sono riusciti.