La gente con cui tornare a parlare, un nuovo centrosinistra, la rigenerazione. Per altri un modello da smantellare, la necessità di dire addio ai capi corrente e azzerare i meccanismi perversi, così da riaprire il dialogo con le persone sui territori. Dopo la notte più nera, quella in cui è affondato come mai dalla sua fondazione, il Pd vaga smarrito alla ricerca di un’analisi che spieghi il flop e, quindi, di una nuova guida capace di rivitalizzare un partito senza un progetto. Tutto passerà dal congresso, convocato di fatto dal segretario Enrico Letta. Si sarebbe dovuto tenere nel marzo 2023, ma vista la debacle nelle urne e l’appuntamento con il voto per le Regionali in Lazio e Lombardia è probabile che si decida per una procedura accelerata. Ma chi saranno i papabili successori di Letta, che ha già annunciato il proprio addio una volta giunti alla scelta?

Il ritorno di Elly Schlein? – C’è chi già vaticina di un ‘papa straniero’, ma dentro il partito – in poche ore – sono già arrivate due analisi che assomigliano molto ad altrettante mozioni congressuali. E sono nomi attesi, anche se nessuno dei nuovi si è azzardato a scoprire le carte: Stefano Bonaccini, Antonio Decaro o Matteo Ricci, con il primo che ha addirittura allontanato l’ipotesi di una propria candidatura per guidare i dem. Sullo sfondo, la figura di Elly Schlein, vice di Bonaccini in Regione Emilia Romagna ed eletta da indipendente nelle liste del centrosinistra. Era tesserata, poi uscì nel 2016 in polemica con l’approvazione del Jobs Act voluto da Matteo Renzi. Prima del voto, Letta aveva auspicato che la guida passasse a una donna, mentre nell’annunciare il proprio passo di lato dopo il 19% raccolto nel Paese ha definito questo il tempo in cui è necessario che “una nuova generazione si metta all’opera”. Identikit che portano dritti a Schlein, finora rimasta in silenzio – senza confermare né smentire – e nel frattempo celebrata anche dalla stampa internazionale come la versione italiana di Alexandra Ocasio Cortez.

Il “progetto forte” di Bonaccini – Parlano senza parlar troppo, invece, Bonaccini e Decaro. “Dobbiamo tornare a dialogare con la gente – ha detto il presidente dell’Emilia-Romagna – Il Pd al 19%? Serve un progetto più forte e più grande. Bisogna costruire un nuovo e diverso centrosinistra”. Questa la sua visione all’indomani della scoppola che ha travolto il partito dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia. Ovunque, tranne che nell’ultima (mezza) regione rossa, la sua, dove il Pd è stato il primo partito nel voto del 25 settembre. Come dire: alla luce di quanto avvenuto in Toscana, dove Fdi ha superato i voti dem alla Camera e li ha sostanzialmente pareggiati al Senato, in Emilia Romagna il ‘sistema Bonaccini’ porta i suoi frutti. Lui però se ne sta in disparte, almeno in pubblico. Un ‘vedo non vedo’ per non bruciare i tempi, anche perché al momento non esiste neanche un timing certo per la scelta del segretario: “Non chiedetemi del congresso – chiarisce subito – In questo momento non faccio nulla, ma proprio nulla. Di certo, deve essere una grande occasione di rigenerazione per noi”. È ‘questo momento’ la chiave da cui ripartire: perché la macchina congressuale è lunga e ben lontana dall’essere avviata.

Come funziona il congresso Pd – Lo statuto dem è molto preciso sui vari passaggi previsti, con tanto di indicazione dei giorni necessari. Alcune procedure sono state snellite di recente ma l’intero iter richiede in condizioni normali 3-4 mesi di tempo. Sono previste due fasi, con vari ‘step’ intermedi. La prima è dedicata al confronto sui documenti congressuali e porta alla selezione dei candidati (almeno 40 i giorni previsti). La seconda comprende il dibattito e il voto nei circoli e arriva fino alle primarie aperte (oltre 50 giorni necessari). Sembrano muoversi con prudenza, ma con affondi ficcanti, anche i sindaci. L’analisi più pesante della sconfitta arriva da Antonio Decaro, primo cittadino di Bari e presidente Anci: “Ha perso il Partito Democratico. Ha perso questa coalizione di centrosinistra. Ha perso l’idea di politica e di Paese che abbiamo proposto agli italiani. Abbiamo perso. E guai se l’analisi del voto, a qualsiasi livello, non partisse da queste due parole. Saremmo di fronte all’ennesimo stratagemma retorico per provare a giustificarci falsificando la realtà”.

Il sindaco di Bari per lo smantellamento – Decaro non ne fa una questione di persone: “In queste ore sarebbe troppo facile sparare a zero sul segretario nazionale. E sarebbe inutile”. Piuttosto, avvisa affondando il coltello nella carne viva dei dem, “è l’intero modello su cui il Pd si fonda che va smantellato”. Quindi l’attacco ai caminetti romani e anche più periferici: “Basta con i capi corrente che fanno e disfano le liste a propria immagine e somiglianza. Basta con questo esercizio del potere per il potere”. Ad avviso del sindaco di Bari, capace di essere rieletto nel 2019 al primo turno con quasi il 67% dei consensi, la strada è segnata: “O saremo capaci, finalmente, di azzerare questi meccanismi perversi e di ritornare a parlare alle persone, oppure la sconfitta perpetua alle elezioni politiche sarà il nostro ineluttabile destino”. Il Partito Democratico, del resto, ricorda Decaro, “perde tutte le elezioni politiche nazionali” dal 2008, cioè da sempre, mentre “nelle elezioni locali, non solo riesce a vincere, ma, soprattutto, riesce a tessere una relazione solida, coerente e responsabile con i cittadini”. Gli uomini dem – che governano il 70% dei Comuni italiani – “si dimostrano capaci di amministrare e di proporre un’idea politica seria” e “le vittorie elettorali ne sono la conseguenza”.

Ricci verso la corsa: “Si riparta dai sindaci” – Anche perché, sottolinea, “in quelle elezioni i cittadini hanno la possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti e di chiedere loro conto, quotidianamente, di quello che promettono in campagna elettorale e di come lo realizzano una volta diventati amministratori”. Un “meccanismo virtuoso di fiducia e controllo” che “salta completamente” quando si è chiamati a scegliere deputati e senatori. Per Decaro è da questa battaglia che i dem devono ripartire: “Ci ritroviamo deputati e senatori che non sanno nemmeno trovare sulla carta geografica i paesi nei quali vengono eletti. Solo perché fedelissimi ai leader di partito, o a qualche capo-corrente”. Dopo aver declinato la candidatura offerta da Letta negli scorsi mesi a lui e agli altri sindaci dem, adesso Decaro abbozza il Pd che dovrà essere. E la sua voce sembra quella dentro un coro, a leggere il messaggio nient’affatto velato di Matteo Ricci, che degli amministratori locali dem è il coordinatore: “Una sconfitta dolorosa e pesante. Non si può che ripartire dai sindaci progressisti e riformisti, dalla sinistra di prossimità”.

Orlando, Provenzano Guerini – Ce ne sono sarà solo uno tra lui e Decaro. Quella del sindaco di Pesaro, ad oggi, appare la corsa più probabile: “Già due anni fa – avrebbero detto a Ricci i primi cittadini a lui più vicini, convincendolo a provarci – sei stato il primo ad allargare una maggioranza dì centrosinistra ai Cinquestelle, con successo. Inoltre, per costruire un progetto nuovo, dobbiamo ripartire dalla provincia italiana, da lì dove non pesiamo più e dove continuiamo a perdere”. I sindaci si scaldano, resta solo da capire chi sarà il volto più in vista verso il congresso. Molto, però, dipenderà dal posizionamento delle varie aree interne al partito, proprio quelle criticate da Decaro. La sinistra interna ha sempre avuto un candidato al congresso e quindi si attendono le mosse di Andrea Orlando o Peppe Provenzano. Idem per Base riformista, l’area che fa capo al ministro della Difesa Lorenzo Guerini. C’era poi chi, fino a non molto tempo fa, scommetteva sulla presenza di un candidato riformista, tracciando l’identikit di Giorgio Gori. La dura punizione elettorale ha stravolto programmi, ambizioni e prospettive. Gli elettori, più che un congresso, sembrano aver chiesto un repulisti.

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