Le intercettazioni telefoniche svelano dunque quell’orrore che tutti avevamo intuito: è stato il padre di Saman Abbas ad organizzare l’omicidio della figlia, strangolata e gettata nel Po con l’aiuto di alcuni familiari.
“L’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l’abbiamo uccisa”. È su quel ‘noi’ che il movente ‘religioso’ da molti media evocato sfuma per svelarne uno più arcaico e non meno feroce: si fa a pezzi il proprio figlio per mantenere l’onore, termine che in questo caso si fonda sostanzialmente sulla concezione transgenerazionale ed inestirpabile dell’uomo come padrone assoluto della vita delle donne di famiglia, identità che non può in alcun modo essere scalfita o messa in discussione agli occhi dell’Altro di appartenenza nel quale si è forgiata.
Questo caso riporta alla mente un altro tragico episodio avvenuto nell’inverno del 2010 nella provincia di Modena. Kahn Ahmad Butt uccise a colpi di mattone la moglie, rea di essersi opposta al matrimonio combinato per la figlia Nosheen. La donna venne massacrata con l’aiuto del fratello nell’orto di casa. In quel caso come in questo l’identità padronale ritenuta compromessa era legata ad un’immagine da mantenere non tanto riferita alla comunità locale, quanto alla famiglia di origine, quindi un laccio ben più solido e complesso, come testimoniato dalle deposizioni che indicano in una sorta di ‘direttiva’ familiare, proveniente dal Pakistan, il comando ultimativo a uccidere.
Un’immagine di padre padrone che non poteva essere scalfita davanti agli occhi del clan di provenienza. Proprio come il genitore di Saman, che dopo aver gettato la figlia in acqua è stato risucchiato da quel mondo arcaico che lo ha forgiato ed accolto, sentendosi forse fiero di aver salvato il proprio ‘onore’. Un mondo sordo alle nostre richieste di estradizione.
Nel film Il Padrino c’è un momento nel quale Frank Pentangeli con la sua testimonianza sta per accusare la famiglia dei Corleone nel processo che lo vede coimputato. La presenza di un parente siciliano in aula, appositamente fatto venire dall’Italia, si dimostra così forte dal farlo recedere dai suoi intenti accusatori, preferendo egli la via del suicidio onorevole a quella del ‘disonore’ patito innanzi ai familiari d’oltreoceano.
Quando il senso di paternità (o maternità) è così degradato da essere vissuto alla stregua di un obbligo sociale, un banale compito da assolvere e come tale sacrificabile in nome di ‘valori’ più pregnanti, non c’è spazio per questioni quali il rimorso o il ripensamento. La scelta è radicale, consapevole. Per certi versi liberatoria. Non pensate mai che sul volto dei macellai di Saman sia comparsa una smorfia di pentimento, una ruga di amarezza, o una lacrima abbia mai solcato il loro volto. Pensate piuttosto al ghigno compiaciuto e soddisfatto di chi sta per cancellare una vergogna, il fiero volto di chi non vede l’ora di sbarazzarsi di un corpo vivo e desiderante ritenuto fonte di vergogna per poi gettarlo nel fiume come un rifiuto organico, riacquistando finalmente agli occhi del suo universo simbolico l’‘onore’ padronale di nuovo immacolato: sono ancora il padrone di mia figlia, e lo affermo uccidendola al suo tentativo di rendersi autonoma dal mio potere.
Sul viso di quei carnefici si sarebbe potuto scorgere il medesimo sguardo soddisfatto e tronfio di quel padre afghano, immortalato in un terribile video di alcuni anni fa, intento a prendere parte alla lapidazione della figlia ordinata dai Talebani per aver ella probabilmente osato alzare lo sguardo. Ne ricordo il sorriso soddisfatto, l’espressione compiaciuta che cercava negli occhi degli assassini barbuti la conferma di un’accettazione definitiva, il loro permesso ad essere di nuovo ammesso in quel consesso sociale delirante da questi edificato dal quale i desideri di vita della figlia minacciavano di bandirlo.