“Io sono già morto, l’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l’abbiamo uccisa…” queste le terrificanti parole pronunciate in un’intercettazione resa nota lo scorso 23 settembre da Shabbar Abbas, il padre di Saman, la ragazza di origini pakistane scomparsa da Novellara dal 30 aprile 2021. A questa probabile confessione si aggiungono tutta una serie di particolari raccapriccianti sulle modalità con cui la famiglia di Saman avrebbe deciso di porre fine alla vita della diciottenne che si opponeva al matrimonio combinato con un cugino di 11 anni più vecchio, particolari che affiorano dal racconto che Ikram Ijaz – uno dei cugini arrestati e accusati insieme al resto della famiglia di concorso in omicidio premeditato e occultamento di cadavere – ha fatto ad un compagno di cella.

Il detenuto avrebbe riferito alla polizia penitenziaria il contenuto delle confidenze dalle quali emerge l’intenzione dei genitori di Saman di giustiziarla per aver intrapreso una relazione con un coetaneo suo connazionale inviso alla famiglia, il tutto aggravato da una foto pubblicata sui social che ritraeva un bacio fra i due ragazzi immortalato per le strade di Bologna. Ikram fornisce dettagli finora solo immaginati dagli inquirenti e racconta che la ragazza, dopo essere stata condotta nei campi che circondavano l’abitazione, è stata bloccata alle mani e ai piedi dai due cugini Ikram e Nomanhulaq Nomanhulaq, strangolata con una corda dallo zio Danish Hasnain, infilata in un sacco e successivamente fatta a pezzi per poi essere gettata nel fiume Po. Secondo il racconto di Ikram, ad uccidere la giovane sarebbero state sei persone perché ai due cugini, allo zio e ai genitori si sarebbe aggiunto un sesto uomo.

Se tutti questi elementi venissero accertati ci sarebbe la conferma che l’omicidio di Saman è avvenuto nell’ambito di un macabro rituale purtroppo ancora in uso in alcune zone del mondo, in particolare nel Punjab che è la regione da cui proviene la famiglia della ragazza. Come anticipato in questo blog, il “delitto d’onore” – non a caso il padre di Saman usa proprio questo termine – è una pratica adottata in Paesi dove permangono tradizioni tribali e fondamentaliste che prevedono il rituale del “kala kali”, ovvero l’uccisione per strangolamento e successivo smembramento del cadavere con un’ascia, per quelle donne che osano rifiutare matrimoni combinati, commettere adulterio o intraprendere relazioni amorose e sessuali prima del matrimonio.

Al di là di chi sia stato l’esecutore materiale dell’omicidio, è chiaro che l’intera famiglia si è resa complice di un reato reso ancora più grave dal legame di parentela; ma il processo che inizierà in Italia a partire dal prossimo mese di febbraio potrà essere celebrato solo alla presenza di tre degli imputati, perché il padre e la madre di Saman sono tuttora latitanti in Pakistan e nonostante la richiesta di estradizione da parte della ministra Cartabia, ci sono scarsi segni di collaborazione da parte delle autorità pakistane. Questi nuovi elementi sull’omicidio di Saman arrivano in una settimana in cui abbiamo appreso della morte di altre giovani donne come Masha Amini e Hadith Najafi, la cui unica colpa è stata la volontà di autodeterminazione e indipendenza da una cultura arcaica che le vorrebbe perennemente sottomesse e silenti.

A donne come loro non è permesso neppure di manifestare e qualcuno ha scritto giustamente che in Occidente e anche in Italia non si ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome per timore di essere tacciati di razzismo. Perché la condanna di rituali primitivi e tribali come quello che spinge un padre e una madre a premeditare in una macabra riunione di famiglia l’assassinio della propria figlia non può essere appannaggio di questo o quel partito politico, ma deve essere unanimemente condivisa da tutti gli schieramenti. E quello che molti hanno definito un femminicidio originato dal senso del possesso senza connotazioni religiose ed etniche non può prescindere dalla consapevolezza che in alcuni Paesi una ragazza non può neppure mostrare una ciocca di capelli che spunta dal velo senza essere arrestata e picchiata fino alla morte, né manifestare pacificamente per le vie della sua città senza rischiare di subire la stessa sorte di Hina, Sana, Saman, Masha, Hadith e le altre.

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