Come spiegare il travolgente successo elettorale di Fratelli d’Italia, passati dal 4% al 26% in meno di una sola legislatura? Un piccolo tassello al grande mosaico delle interpretazioni può essere fornito anche dal confronto tra i programmi in materia fiscale del partito post-missino del 2018 e del 2022. Anche se il quadro di fondo non è cambiato, tuttavia qualcosa non è più come prima e i dati elettorali lo hanno dimostrato. Le proposte fiscali di FdI per la società e l’economia italiana sono in gran parte ancora quelle del 2018, ma con una significativa novità. Ovviamente ora che il partito post-missino è passato dall’estrema periferia al centro della scena politica, anche le sue proposte troveranno un maggior spazio nell’azione di governo. Ma di quali proposte stiamo parlando?
Nel programma elettorale del 2018, dei 15 punti programmatici uno solo riguardava le materie strettamente fiscali. Il tema fondamentale, allora come adesso, è che Fratelli d’Italia si è proposto come un estremo partito no-tax, usiamo questa espressione. Via la tassa sulla casa, via tributi minori, riduzione delle aliquote, riduzioni dei contributi sociali, e così via nel solito rosario da comizio elettorale. Poi c’è la strizzatina d’occhio, anzi ben più che un atteggiamento indulgente, nei confronti del popolo dell’evasione fiscale. Per cui, ancora nel 2018 troviamo ben in evidenza le due proposte clou della destra in questo campo: l’eliminazione del tetto al contante e un condono fiscale tombale. Anche il partito post-missino, vittima ormai definitiva del vento berlusconiano, ha perso definitivamente quel senso del dovere verso lo Stato e quel senso profondo di etica pubblica che lo ha sempre caratterizzato in quanto movimento conservatore. C’è anche un bagliore di flat tax, ma solo per il reddito incrementale. Insomma, lo stato fiscale deve essere minimo e benevolente nei confronti delle scappatelle dei contribuenti.
Gli stessi elementi si ritrovano, quasi un copia-incolla, anche nel programma del 2022, ulteriormente rinforzati. Oltre alle vecchie proposte, gli ultra conservatori si sono spinti molto in là nelle lusinghe fiscali, proponendo per esempio di aumentare di tre volte lo stipendio dei lavoratori dipendenti abbassando le aliquote contributive e detassando la tredicesima. Una vera cuccagna per tutti, con costi non quantificati naturalmente. Però il programma del 2018 conteneva una singolare differenza. Tanto forte era allora l’avversione nei confronti della finanza pubblica che il partito post-missino proponeva un limite costituzionale al debito pubblico e di usare la leva del debito solo per investimenti pubblici. Una sorta di fiscal compact nazionale, con buona pace delle tanto detestate politiche europee. Questo riferimento al nobile costituzionalismo economico del premio Nobel per l’economia James Buchanan, che proponeva delle regole costituzionali di contenimento della finanza pubblica, è completamente sparito nel programma del 2022. Il partito di Meloni ha deciso di lasciarsi alle spalle ogni briciolo di responsabilità fiscale.
Se lo stato fiscale deve essere minimo, quello sociale deve essere al contrario massimo, questo sia nel programma nel 2018 ma ancora di più in quello del 2022, a totale trazione demagogica. La destra italiana, e il partito post-missino in primis, è affetta da quello che potremo chiamare in chiave psicologica un disturbo bipolare in campo fiscale: chiedere molto poco ai cittadini ed elargire molto. Ecco allora che il prossimo governo Meloni si impegnerà a portare le pensioni minime a mille euro. Poi attuerà una specie di piano Marshall contro l’esclusione sociale e la povertà, che naturalmente non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza. Come nel 2018 il primo punto del programma del 2022 è dedicato alle politiche familiari, e si apre addirittura con una citazione di Giovanni Paolo II. Ecco allora la previsione di un aumento consistente dell’assegno per i figli e asili nido gratis per tutte le famiglie. Deducibilità poi a 360 gradi di una vasta categoria di spese familiari. Diciamo che sommando tutti questi provvedimenti di spesa, e tutti gli altri che grondano dalle pagine del programma elettorale di FdI del 2022, si ottiene un fardello fiscale di molte decine di miliardi da recuperare in qualche modo e che ha messo giustamente in allarme la finanza internazionale che compra il nostro debito. Intanto, tutte queste promesse completamente irrealizzabili hanno riempito il granaio elettorale.
In definitiva, come si presenta il programma in materia fiscale del partito di maggioranza relativa? Qualcuno con un giudizio superficiale potrebbe direbbe che ha un’intonazione populista, cioè si presenta come un programma che sta dalla parte degli interessi della gente comune che vuole servizi migliori e un fisco più equo. Ma questa non è la definizione più adatta. Più corretto è definirlo, in termini certamente un po’ superati ma più corretti, come il programma demagogico di un piccolo partito, ora non più, che per farsi sentire agitava proposte irrealizzabili anche se l’economia avesse viaggiato a pieno ritmo. Tra le mille promesse messe sul tavolo, bisognerà però ad un certo punto scegliere. Ecco allora che avremo modo di verificare se Meloni premier è effettivamente una statista in grado di mettere da parte le urlate fantasie elettorali, che si trasformeranno peraltro subito in incubi, per affrontare i veri problemi degli italiani, proponendo ad esempio e fin da subito una forte tassazione degli utili da extra profitti, dei super redditi e dei super patrimoni. Questa non sarebbe demagogia ma un sano populismo redistributivo in tempi di crisi. Oppure se invece sarà, come i governi di centrodestra hanno finora dimostrato, una specie di suq elettorale dove ogni corporazione che ha portato alla vittoria passerà all’incasso, con tipico spirito clientelare.
Sarà difficile per Meloni, e per il fidato consigliere economico Guido Crosetto, essere un partito no-tax e no-deficit insieme, come arditamente promesso nel 2018, promessa poi scomparsa nel 2022 – e dovrà scegliere. La Meloni ha vinto le elezioni anche cavalcando la D di demagogia, ora si trova di fronte ad un’altra D molto più impegnativa, quella del debito pubblico che non può più essere usato in maniera elettoralistica. Certamente una strada ci sarebbe, quella di riportare il sistema fiscale su di un piano di normalità tassando in maniera realmente progressiva tutti i redditi e prosciugando la palude dei privilegi fiscali, in primo luogo l’evasione e naturalmente eliminando gli sprechi. Oggi la tecnologia ci offre degli strumenti eccezionali, e uno statista, anche di estrema destra, non ha più alibi su questo punto, altrimenti rimarrà imprigionato in logiche demagogiche che lo porteranno ad un veloce logoramento, come è già successo. Il rientro in parlamento dei dinosauri in campo fiscale come l’ex ministro Giulio Tremonti non è un buon segno.