I risultati delle elezioni tenute domenica scorsa hanno largamente confermato i pronostici e le aspettative; ciononostante alcune considerazioni meritano di essere reiterate:
1) La coalizione di destra, col 44% dei voti, ottiene una maggioranza parlamentare molto ampia: di poco sotto il 60% sia alla Camera che al Senato. Questa maggioranza, fortunatamente non basta per modificare la Costituzione senza ricorrere al referendum confermativo (sempreché non si raccolgano in Parlamento voti esterni al cdx). La legge elettorale ha trasformato una ampia minoranza in maggioranza e ha dato vantaggio alle coalizioni pre-elettorali, note agli elettori, come si desiderava che facesse al tempo in cui fu scritta, ma se ne vede oggi un grave difetto imprevisto: il premio di maggioranza è risultato esagerato. E’ infatti un ovvio e pericoloso errore che il premio di maggioranza anziché fermarsi a garantire la governabilità possa rendere possibile la modifica della Costituzione ad una coalizione che non rappresenta il 67% degli elettori. Da questo punto di vista è il caso di dire che l’abbiamo scampata bella (se l’abbiamo scampata).
2) La categoria sociale di appartenenza dell’elettore ha scarsa rilevanza nella sua scelta politica. Il 26% ottenuto dal partito di Giorgia Meloni e il 44% ottenuto dalla coalizione di destra, per la quale la definizione di centro-destra è un eufemismo, non rappresenta certo la percentuale di italiani “ricchi”. Di conseguenza non è possibile, se mai lo è stato, identificare la sinistra e la destra sulla base del censo dei loro elettori. Questo naturalmente era ovvio da tempo: poiché i veri ricchi sono una minoranza nel paese, nessun partito può sopravvivere se è votato soltanto dai membri di questa categoria sociale. Si conferma che il concetto di classe sociale in senso marxista, cioè di categoria socio-economica ideologicamente coesa è un errore storico: i “poveri” ripartiscono i loro voti tra tutti i partiti.
3) Non ci sono voti a sinistra del Pd, a meno di non considerare sinistra il M5S, un soggetto politico nato come partito-azienda, scalato e trasformato in qualcosa d’altro da Giuseppe Conte. Unione Popolare si ferma all’1,5%, l’alleanza Verdi-Sinistra raggiunge il 3,7% ma soltanto sotto lo scudo protettivo del Pd. L’accusa comunemente ripetuta secondo la quale gli insuccessi del Pd sarebbero dovuti all’aver abbandonato la classe sociale di riferimento è sbagliata e strumentale, perché la “classe” si è frammentata tra tutti i partiti e comunque non ha granché votato né UP né VS.
4) E’ difficilissimo costruire un partito “nuovo”: tutti i fuoriusciti hanno ottenuto risultati modestissimi: non solo Di Maio e Paragone, ma addirittura, in passato, Bersani. L’unica eccezione in questo senso è il M5S che ottenne il suo successo grazie alle sapienti alchimie mediatiche di Gianroberto Casaleggio, e alla notorietà precedente di Beppe Grillo. Per contro, una volta che un partito è stato in qualche modo costruito ed ha acquisito una “storia” anche recente, che gli dia visibilità, possiede anche una inerzia che lo protegge dagli sbandamenti più vistosi. Renzi e Calenda che hanno ottenuto un rispettabile 7-8%, sembrano costituire una eccezione, che però deriva dalla somma di due risultati relativamente modesti.
5) L’attacco concentrico sul Pd ha funzionato: il Pd è stato il nemico indicato non solo dalla coalizione di destra, ma anche dal M5S e dal duo Renzi-Calenda. Il campo largo di Letta è stato smantellato dalle defezioni: del M5S prima, quando ha votato contro il governo Draghi, di Calenda poi. Se una coalizione rischia di non ottenere il premio di maggioranza che viene dalla vittoria nei collegi uninominali, la tentazione di fare ciascuno per sé e cercare di cannibalizzare l’ex alleato diventa irresistibile. Ciononostante un partito che ha la tradizione del Pd non scompare facilmente e resta il secondo partito dell’arco costituzionale, in parte per inerzia, in parte perché per fortuna ci sono ancora elettori per i quali la responsabilità politica fa premio sulla demagogia populista.