di Nicola Cirillo

Sto cercando lavoro. Nella vergognosa giungla degli annunci on line, che nessun politico ha mai pensato di regolamentare, mi imbatto in alcuni che sembrano fare al caso mio. La lingua è in inglese, credo per varie ragioni: forse serve alle aziende per dotarsi di un’immagine internazionale o forse perché l’annuncio così concepito è un primo passo, un primo “step”, nel processo di scrematura delle candidature che arriveranno. Ogni volta mi lascio tentare dal titolo: Publishing manager, Scrum master, Press officer, Project manager, Agile Coach, Technical writer, Journalist, e via così. Continuo a leggere la lista dei “requirements”, delle “skill” richieste, e quindi procedo con l’autoanalisi delle mie competenze: titoli di studio, esperienze nel ruolo, certificazioni, lingue straniere, soft skill e generiche attitudini. Ce l’ho. E solo quando metto insieme i pezzi e mi convinco che sì, quello è il mio lavoro, continuo a leggere la descrizione, la “mission”, i compiti, e lì tutto cambia: realizzare gli obiettivi aziendali, sviluppare o fidelizzare la clientela, rappresentare il marchio, promuovere il brand, riportare all'”head”, condividere i risultati con la linea di direzione.

È allora che comincia a definirsi che si lavora per il profitto di qualcun altro e non per sé, né per la società. È lì che comincia a diventarmi chiaro che io non voglio lavorare. O almeno non voglio lavorare secondo questi paradigmi, in cui ogni ora del mio tempo, della mia vita serve solo a far comprare ville e Porsche a dei lontanissimi innominabili capi, per lo più ignoranti, che si spostano con jet privati, finanziano lobby discusse, si assicurano un posto pulito e sicuro in questo paradiso terrestre che però continuano a inquinare. Sono la vergogna dell’umanità. È lì che comincio a capire che è più dignitoso guadagnare vendendo foto dei piedi su OnlyFans, o fare patetici balletti su TikTok e definirsi creator digitali, piuttosto che alimentare questo sistema industriale disumano.

Ci risparmiassero almeno la patetica retorica che gli italiani sono scansafatiche o che il reddito di cittadinanza ha rovinato il mercato del lavoro (magari con l’aggravante razzista che ad approfittarsene siano i meridionali). Il mercato del lavoro lo avete rovinato voi, imprenditori ignoranti, servi del capitale, analfabeti sentimentali, cocainomani, malati di ego e poveri di spirito. La cultura del lavoro in Italia non manca a chi dovrebbe lavorare, manca più a chi offre lavoro.

Fuori dal Belpaese forse il “mercato” è differente. Deve essere per questo che emigrano cervelli e cuori. Non certo per i soldi. Tempo fa lessi un annuncio di Wikimedia Foundation che ti faceva desiderare di essere parte di quel movimento. Avrà ricevuto migliaia di candidature dall’Italia e non perché offriva 45 giorni di ferie retribuite, 600 dollari di bonus per sistemare la tua scrivania a casa, polizza sanitaria vantaggiosa, trattamenti di fine rapporto con alti standard contributivi, 750 dollari all’anno per fare dei corsi di formazione a tua scelta, 10.000 dollari per accedere a piani di fertilità o adozione, giorni liberi da dedicare al volontariato, orari flessibili e altri benefit come questi. No, quell’annuncio diceva che tu sei importante come essere umano e che il tuo apporto all’azienda non può non tener conto della tua crescita personale. Diceva che gli obiettivi della fondazione sono importanti quanto i tuoi obiettivi personali e che alla fine coincidono.

Abbiamo avuto anche noi in Italia imprenditori illuminati, come Adriano Olivetti, che non a caso Papa Francesco ha citato durante un confronto con Confindustria, e forse ce ne sono ancora, ma il grosso del settore produttivo italiano oggi è in mano a un management che non ha capito che il proprio interesse privato non può prescindere da quello pubblico. Sono una casta di cortigiani che, invece che ossequiare il papa o il re, venerano i soldi come bene assoluto, dispensatori di soddisfazioni e felicità.

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