Uno spettro si aggira sul sito di Netflix: la colpa indelebile della pornografia. Per chi ancora non l’avesse letto, intravisto, capito, Supersex, la serie biopic sull’attore porno Rocco Siffredi, ancora prima di essere girata nelle prossime settimane a Roma, mostra già le stigmate della colpa. Infatti, si legge, da sinossi ufficiale che: “Supersex è la storia di un uomo che ci mette 7 puntate e 350 minuti a dire ti amo, ad accettare che il demone (sic!) che ha in corpo sia conciliabile con l’amore. Per farlo deve mettere a nudo l’unica parte di lui che non abbiamo mai visto: la sua anima”. Tralasciando il tono da catechismo, la sinossi di Supersex sembra farci tornare indietro culturalmente di non si sa bene quanti decenni, se non centinaia di anni. E non è di certo colpa della Meloni. Il demone sotto la pelle del pornoattore come spunto poetico è drammaturgia oscurantista che oggi nemmeno Comunione e Liberazione potrebbe divulgare durante un happening estivo. Pena, ovviamente, la requisizione di tutti gli smartphone prima di un impennata di accessi su Pornhub. Dicevamo del demone. Certo Siffredi ha raccontato diverse volte in varie interviste che per lui, per un certo periodo, il sesso è diventato come una droga. Ci sta. Come ci sta per le ossessioni di un broker per i grafici azionari, per un pilota di Formula 1 rischiare l’osso del collo per arrivare sempre davanti, per Calenda nell’ottenere un seggio in più di Letta. Però se si tratta di stigmate legate direttamente alla pratica del sesso, quindi della sua relativa esposizione mediatica senza censure, ovvero alla pornografia, la faccenda assume toni più alla Torquemada. Pensate, il demone che il protagonista di Supersex ha in corpo obnubila la sua anima. L’eccitazione erotica o la ricerca dell’orgasmo trattate come qualcosa di deplorevole, di meschino, addirittura di diabolico. Rocco Siffredi modello Linda Blair, posseduto dal demone analpazuzu, che non distingue più una carezza alla propria amata dall’ultima gang bang. Chissà che non ci sia perfino di mezzo una clinica di recupero. Qualcuno che getta acqua fredda cinque volte al giorno nelle parti basse del protagonista e gli azzoppa la libido con qualche pasticca. Se esiste ancora un approccio siffatto al sesso consumato in video, al ruolo professionale del pornoattore o pornoattrice (esistono solo i demoni che attivano l’erezione maschile? Le donne se la cavano con qualche folletto o alieno?) chiaro che anche tutti i commenti di chi sui social suggerisce ad Alessandro Borghi di lasciar perdere questo ruolo un po’ sporco e volgare arrivano di conseguenza, nemmeno fossimo alla prima de La dolce vita di Fellini. Va bene, poi ci torniamo su quando la vediamo, ma se non è zuppa, sia chiaro, sarà pan bagnato.