I risultati definitivi delle elezioni di domenica scorsa e i flussi elettorali pubblicati in queste ore ci consentono di capire più nel dettaglio quali azioni comunicative hanno funzionato e quali no, in quest’ultima campagna elettorale. Ne emergono 5 lezioni, piccole e grandi, di comunicazione politica.
1 – Media e Vip influenzano poco l’elettorato
Giorgia Meloni, vera vincitrice di queste elezioni con il 26% (quanto tutto il centrosinistra), ha subìto una serie di attacchi da attori, cantanti e influencer per tutta la campagna e anche prima. Molti giornali e tv l’hanno attaccata, non solo per informare – entrando nel merito dei suoi errori e dei suoi candidati peggiori, cosa giusta e sana – ma anche facendole processi alle spalle, invitando opinionisti da sempre schierati a sinistra che hanno cavalcato la retorica del pericolo fascista.
Questo ha funzionato poco. Un po’, sui giovani (lo vediamo dopo), ha avuto effetto. Ma in generale, come dimostra il risultato della Meloni, si è trattato di tanto lavoro per nulla. C’è un elettorato che forma le proprie opinioni sui candidati, ascoltando e osservando i candidati stessi. La colpa è sicuramente dei media, i quali hanno perso credibilità nel tempo trasformandosi in molti casi in strumenti di propaganda, come abbiamo visto durante il governo Draghi.
2 – Per chi votano i giovani?
Questa è la domanda che ha tormentato le war room (i team delle campagne elettorali) per tutta l’estate: per chi votano questi benedetti giovani? Il consorzio di sondaggisti Opinio ci dà la risposta. Dai 18 ai 24 anni vince il M5S con il 18,8%. Segue il Pd, con il 16,9% (meno del dato nazionale, 19,1%). Il dato interessante, nel centrosinistra, è quello di +Europa che fra gli under 25 avrebbe preso il 6,7% (mentre non ha superato la soglia del 3% sul totale degli elettori). Sull’importanza di questo dato torniamo fra poco.
E la Meloni? FdI è al terzo posto, con il 16,7%. In totale comunque il centrodestra avrebbe vinto con il 32,7% degli elettori più giovani, contro il 30,5% del centrosinistra. Probabilmente però non avrebbe governato. Ecco per chi votano i giovani quindi. Ora la domanda è: perché? Ho individuato alcune ragioni.
Il voto dei giovani al M5S è una costante. Anzitutto perché loro stessi sono giovani e questo provoca una naturale simpatia da parte delle fasce d’età più basse. Hanno portato in Parlamento nel 2018 i politici più giovani (alla Camera l’età media degli eletti col M5S è di 38,5 anni, al Senato di 50, in entrambi i casi la più bassa). Questo record va avanti dalla scorsa legislatura (37 anni di media).
Il secondo motivo del successo che da sempre ha il M5S fra i giovani è dato dal fatto che in campagna elettorale si sono sempre posizionati come anti-sistema. Tutti noi, o quasi, da giovani lo siamo stati, no? Eravamo anti-sistema e, spesso, estremisti. Da ragazzi tendiamo ad essere di destra o sinistra radicale, spesso la scelta fra i due poli è quasi casuale, e ci affascinano i leader carismatici.
È questo il motivo per cui molti giovani hanno comunque votato la Meloni e, a sinistra, questo spiega il successo di +Europa (6,7%) e Alleanza Verdi e Sinistra col 6%, quasi il doppio rispetto al dato su tutte le fasce d’età. Evidentemente il tema dei diritti è più sentito dagli under 25 che dai più grandi. Da questo risultato possiamo dedurre che, almeno nei confronti dei giovani, l’opinione di influencer molto seguiti e che hanno comunicato bene (come spiego qui) sul tema dei diritti di donne, immigrati e omosessuali può avere effetto.
3 – Bene o male purché se ne parli? Non funziona
Il risultato di Luigi Di Maio, col suo 0,6%, è stato disastroso. Eppure tutti hanno parlato di lui: giornali, tv, avversari, ex colleghi. Era dunque un candidato molto noto, le cui proposte e dichiarazioni avevano molto spazio sui media. Allora perché questo risultato? Perché non è assolutamente vera la teoria popolare di comunicazione che dice “bene o male purché se ne parli”. Se tutti parlano solo male di te, sei destinato all’oblio. La pubblicità non è sempre buona, può distruggerti se è solo negativa.
Se invece, oltre ai tanti che parlano male di te, hai almeno qualcuno che dall’altra parte parla bene di te (i follower sui social e qualche giornalista per esempio), allora in molti casi puoi girare il dibattito a tuo favore e mantenere una certa popolarità, polarizzando l’opinione pubblica. Lo fanno da sempre Salvini, Meloni, Renzi e Berlusconi. A Di Maio non è rimasto nessuno. Non lo hanno difeso neanche più i suoi follower. È uno dei rari casi in cui tutti ti attaccano e nessuno prende le tue parti.
4 – È possibile cambiare le sorti di un’elezione durante la campagna elettorale
Un’altra teoria sbagliata di comunicazione, che molti professano, è che le campagne elettorali sono inutili perché non spostano voti. L’elettore, secondo questa teoria, non cambia idea all’ultimo, sulla base del dibattito. Il risultato di Giuseppe Conte dimostra il contrario. Alle amministrative di giugno, il M5S ha toccato il risultato più basso di sempre, con percentuali dal 2 al 4 per cento. Prima della caduta del governo Draghi, i sondaggi lo davano intorno al 10%. Domenica invece ha preso il 15,4%. Durante la campagna i sondaggi lo davano in crescita settimana dopo settimana.
Conte ha fatto una buona campagna elettorale. Ha preferito la tv alle piazze, strategia giusta visto il poco tempo a disposizione. In tv poi si è sempre comportato molto bene. Non ricordo gaffe o particolari momenti di difficoltà. Ha comunicato con calma e chiarezza, illustrando risultati e programmi, senza dare l’idea di essere ossessionato dalla vittoria. Un grande aiuto, come ammesso da lui stesso, gli è arrivato dagli avversari. Letta lo ha isolato, permettendogli di correre da solo e diventare così l’alternativa non draghiana al Pd. La Meloni ha attaccato il Reddito di cittadinanza tutto il tempo, permettendo al M5S la rimonta al Sud, di cui parliamo nell’ultimo punto.
5 – L’avversione alla perdita e il risultato del M5S al Sud
Promettere soldi porta voti? No, non è così semplice. Vediamo come funziona il meccanismo psicologico dell’avversione alla perdita per capire come stanno realmente le cose. Il M5S come sappiamo ha raccolto molti voti al Sud, dove è il primo partito, con punte dove il numero di percettori di Reddito di cittadinanza è più alto. Tuttavia questo non significa che promettere soldi porti automaticamente voti. Le persone non sono riconoscenti, però hanno paura di perdere ciò che hanno.
Il fatto di dare il reddito di cittadinanza non porta voti. Qui ho spiegato i motivi psicologici dietro a questa irriconoscenza degli elettori, prima che fosse introdotto. Il risultato negativo alle elezioni europee del 2019, subito dopo l’introduzione dell’assegno su cui il Movimento basò la campagna, lo ha dimostrato. Il M5S passò dal 32% preso alle politiche del 2018 al 17%, contro il 34,4% della Lega.
Oggi il Movimento di Conte non avrebbe preso voti per il reddito di cittadinanza se non fosse che i suoi avversari hanno minacciato di toglierlo. Questo meccanismo psicologico si chiama “avversione alla perdita” e lo troviamo in ogni aspetto dell’economia comportamentale. Si tratta della tendenza degli individui a prendere più in considerazione una perdita rispetto a un guadagno della stessa entità. Le perdite sono percepite come maggiori dei guadagni. Una perdita è psicologicamente stimata essere il doppio del valore di un guadagno.
I poveri hanno agito non per riconoscenza, ma per paura. Hanno difeso qualcosa di loro. L’avversione alla perdita è una leva forte, al contrario delle promesse a cui, tra l’altro, molti elettori non credono più.
Spero che queste lezioni siano utili non solo ai partiti, per affinare le proprie strategie ed evitare di ripetere gli stessi errori, ma anche agli elettori per comprendere meglio le dinamiche che si celano dietro certi risultati.