I convulsi eventi sulla scena geopolitica mondiale continuano a prenderci di sorpresa. Cosa c’è dietro la distruzione del gasdotto Nord Stream? Non possiamo dire chi sia stato, ma una cosa è certa: il conflitto che stiamo vedendo è una guerra per le risorse molto di più di quanto non sia una guerra guerreggiata. Per capire cosa sta succedendo, dobbiamo tornare indietro nel tempo a trovare le radici della situazione attuale.
Nel libro Mare e Sardegna (1921) l’autore, D.H. Lawrence, ci racconta come un soggetto favorito nelle conversazioni fra gli italiani del tempo erano gli insulti verso l’Inghilterra. Era perché il carbone inglese era diventato caro, cosa che gli italiani attribuivano alla malvagità degli inglesi. Il termine “Perfida Albione” era stato inventato molto tempo prima, ma cominciava a diventare di moda a quell’epoca.
La storia del carbone inglese in Italia ci illustra i fattori ancora oggi in gioco nel funzionamento dell’economia italiana. L’industria italiana ha bisogno di energia, ma in Italia non ci sono risorse energetiche fossili sufficienti. Così, la rivoluzione industriale era arrivata in Italia nell’800 portata dal carbone inglese, importato via mare. Ma, con la fine della prima guerra mondiale, il carbone inglese era diventato improvvisamente molto più caro di prima. Non era perché gli inglesi fossero perfidi (forse un tantino sì, ma non peggio di tanti altri), era per via dell’esaurimento delle risorse. Come aveva già previsto alcuni decenni prima l’economista inglese William Jevons, i costi di estrazione del carbone erano sempre più alti. Così, la produzione di carbone inglese aveva raggiunto il suo picco nel 1914 e aveva cominciato un declino irreversibile. Negli anni 1930, la carenza di carbone aveva costretto l’Italia a un abbraccio mortale con la Germania – che ancora poteva produrlo a prezzi bassi. I risultati li sappiamo tutti.
Uscita con le ossa rotte dalla seconda guerra mondiale, l’industria italiana riuscì a risorgere grazie al petrolio statunitense fornito in abbondanza con il piano Marshall. Anche per il petrolio, tuttavia, l’esaurimento doveva farsi sentire prima o poi. Nel 1970, gli Stati Uniti arrivarono al loro picco di produzione. Ne seguì la prima grande “crisi del petrolio”, ma il mercato globale riuscì a compensare il declino con altre sorgenti. Nel frattempo, si diffondeva un nuovo combustibile fossile: il gas naturale. Gradualmente, l’Europa si orientava verso importazioni dalla Russia mediante gasdotti. Con il gas a costi relativamente bassi, il sistema industriale italiano poteva sopravvivere.
Negli ultimi dieci anni, però, le cose sono cambiate radicalmente. Con la tecnologia del “fracking”, gli Stati Uniti sono riusciti a invertire il declino della loro produzione sia di gas che di petrolio. Di conseguenza, si sono riaffacciati sul mercato mondiale come esportatori. Questo spiega molte cose: il mercato del petrolio e del gas è strategico nel grande gioco del dominio mondiale e in questo gioco non ci sono regole. Buttar fuori la Russia dal mercato dell’Europa occidentale rende possibile all’industria americana riprendersi un mercato che avevano perso da tempo. E’ quello che sta succedendo. Il sabotaggio del gasdotto Nord Stream è un segnale che il gas russo non arriverà più in Europa.
E adesso? In questo gioco strategico globale, tutto cambia sempre. E’ vero che le importazioni dagli Stati Uniti sono oggi in grado di sostituire il gas russo in Europa. Ma è anche vero che questo è possibile soltanto in forma di gas naturale liquido e questo comporta grossi costi, come pure un pesante contributo al riscaldamento globale dovuto alle inevitabili perdite nel processo. A questo si aggiunge un’incognita fondamentale: fino a quando riusciranno gli Stati Uniti a mantenere la loro produzione ai livelli attuali?
Il fracking è stato visto come una tecnologia miracolosa, ma non è così. La produzione sia di gas che di petrolio negli Usa è piatta da qualche anno, mentre le proiezioni non parlano di una ripresa della crescita rapida nel prossimo futuro. Come sempre, le previsioni sono difficili, ma di una cosa possiamo essere sicuri: nessuna risorsa minerale è infinita e prima o poi ci troveremo di fronte al picco del gas da fracking. E tutto ricomincia da capo con la ricerca affannosa di energia per tenere in piedi la società industriale.
Per quanto riguarda l’Italia, ci troviamo in una posizione di estrema debolezza. Ci mancano le infrastrutture (i rigassificatori) necessarie per importare gas liquefatto. Le possiamo costruire, ma ci vorrà tempo e, nel frattempo, l’industria italiana potrebbe subire dei danni irreparabili. Non è detto poi che quando avremo i rigassificatori ci sarà gas disponibile da importare. Non solo, ma l’industria italiana potrebbe ritrovarsi a non essere competitiva sul mercato mondiale se deve sobbarcarsi gli alti costi del gas naturale liquido. In entrambi i casi, potremmo essere di fronte alla fine del ciclo industriale dell’economia italiana, circa due secoli dopo il suo inizio. Il problema è che, prima della rivoluzione industriale, in Italia c’erano meno di 20 milioni di abitanti e le carestie non erano rare. Tornare a quelle condizioni non sarebbe indolore (per dirla molto diplomaticamente).
Sembra chiaro che per noi non ci sono altre vie di uscita che una sterzata decisa verso le rinnovabili, già oggi molto meno costose di qualsiasi combustibile fossile e in grado di sostituirli completamente. Questo i politici non l’hanno ancora capito, ma ci metterebbe al riparo da nuove crisi di disponibilità di energia e dai ricatti dei produttori. Ma non è una cosa che si possa fare dall’oggi al domani. Solo una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina ci darebbe il tempo per costruire una nuova infrastruttura basata sulle rinnovabili. Ce la faremo? Nulla vieta di provarci.