Come ha puntualmente titolato il Fatto Quotidiano all’indomani del voto, “Meloni ha vinto da sola”; ma ora deve governare con i suoi partner, due nani politici che si sono fermati ad un terzo dei suoi consensi. Ma “grazie” al Rosatellum – i cui esiti demenzial-scellerati si manifestano anche nell’attribuzione dei seggi all’interno della coalizione vincente – uno di questi, la Lega di Salvini in caduta libera, può beneficiare di un’incredibile sovrarappresentanza parlamentare.
Così con un evidente ribaltamento della realtà i leader di due forze che hanno complessivamente perso 5 milioni di voti rispetto alle precedenti politiche si comportano come presunti vincitori. Silvio Berlusconi, al timone nel suo 86esimo compleanno di un forza politica “residuale” a seguito dell’emorragia di voti verso Fratelli d’Italia e di fuoriuscite verso il cosiddetto terzo polo, continua ad autorappresentarsi come “il regista” dietro le quinte di un governo di cui potrà essere solo un attore non protagonista. Salvini, che a differenza di Letta non ha minimamente accennato ad un suo ridimensionamento a seguito della inconfutabile débacle elettorale, forte della “fortuita circostanza” per cui con un terzo dei voti di FdI può contare in Parlamento su circa la metà dei suoi seggi, pretende per sé quel “ministero di peso” già rivendicato durante la campagna elettorale, ovvero il Viminale. Qualora scontentato, avrebbe prospettato anche la minaccia improbabile di un appoggio esterno.
Ora si tratta di prevedere e valutare il più lucidamente e realisticamente possibile quanto questo esito elettorale complessivo del centrodestra o della destra-destra, come vogliamo chiamarla, si possa tradurre in un’azione di governo che risulti “rassicurante” sotto due profili fondamentali come ha ribadito anche Rosy Bindi a Tagadà mercoledì 28 settembre: e cioè “rispetto della Costituzione e convinta collocazione europea”, senza rivendicazioni di sovranismi nazionali.
Altra riflessione riguarda la ricerca delle plurime responsabilità, che non possono riferirsi solo ad Enrico Letta, da attribuire e distribuire “nel campo più o meno largo” del centrosinistra e/o progressista, mai realisticamente concretizzato, che avrebbe dovuto o potuto avversare quella che viene definita “l’ascesa al potere delle destre”. Con la premessa fin troppo scontata di essere di fronte ad un risultato che, in costanza dell’ineffabile Rosatellum (deprecato a parole e oggetto di critica persino da parte del suo artefice, ma di cui nessun capo politico ha voluto minimamente disfarsi per assicurarsi il proprio listino di fedelissimi), era stato annunciato e descritto in modo chiaro e dettagliato da politologi, costituzionalisti e sondaggisti dall’inizio della campagna elettorale.
Già a caldo, all’indomani del voto, Massimo Cacciari aveva definito una “colossale stupidaggine” – e l’ha ribadito in seguito con toni ancora più sferzanti – l’idea che l’affermazione della Meloni significhi “la fascistizzazione dell’Italia”. Contemporaneamente ha messo in evidenza la contraddizione insostenibile a sinistra nell’enunciare il pericolo del fascismo che avrebbe richiesto un fronte repubblicano unitario sul modello del Cnl, per poi andare in ordine sparso a causa delle divergenze sulle soluzioni economiche, ma anche, aggiungerei, sul posizionamento in politica estera e sull’aggressione della Russia all’Ucraina. Nell’intervista alla Stampa del 26 settembre Cacciari chiama “malati” che non ammettono la malattia i dirigenti del centrosinistra, del Pd in primis, che non hanno fatto “uno straccio di legge elettorale” pur sapendo a cosa si andava incontro con il combinato disposto del taglio dei parlamentari e del Rosatellum, “malati” che dopo aver ripetuto di aver governato benissimo insieme non sono in grado di trovare “una linea comune” per presentarsi agli elettori. Quale? “Viva l’Europa, viva l’Occidente, viva l’America, no a Putin”.
Un programmino, questo, “minimale” ma molto chiaro e lineare che Giorgia Meloni, dopo più o meno recenti giravolte e convergenze con campioni dell’antieuropeismo da Orban a Le Pen, ha dimostrato di condividere con i fatti dall’opposizione votando sempre le sanzioni a Putin e il sostegno militare all’Ucraina. E senza i mal di pancia, le ambiguità, l’opportunismo che hanno contraddistinto Salvini, B. e Conte che erano al governo e che lo hanno fatto cadere in un momento di altissima criticità per semplice calcolo elettorale.
In perfetta coerenza in questi giorni di silenzio, in attesa di ricevere l’incarico dal Capo dello Stato, Meloni ha ribadito con chiarezza assoluta a Zelensky l’impegno di “dare leale sostegno alla causa del popolo ucraino” nonostante la consapevolezza di deludere quella parte dei suoi sostenitori che si sente tradita perché “Giorgia non pensa prima agli italiani”, come se contrastare l’invasione di Putin e riaffermare i più elementari principi del diritto internazionale potesse essere lesivo dell’interesse nazionale. Una chiarezza e una linearità che difetta, eufemisticamente, nei suoi partner di coalizione legati a Putin da una consolidata ed opaca vicinanza: il biglietto pagato a Salvini dall’ambasciata russa per l’escursione in solitaria al Cremlino e molto di più le dichiarazioni di B. a proposito “delle brave persone” con cui Putin doveva sostituire i debosciati insediati a Kiev, previa destituzione, sono solo recenti conferme.
Per quanto la possiamo conoscere finora Giorgia Meloni, al di là delle frequentazioni internazionali politicamente discutibili, ma alla luce del sole, non è mai scesa al livello dei suoi sodali; ha manifestato agli stessi, che l’hanno rigettata, l’intenzione di dare una presidenza in Parlamento all’opposizione; ha detto cose su Putin, Pnrr ed Europa condivisibili per qualsiasi italiano che si consideri anche cittadino europeo, inclusa la disponibilità ad introdurre il voto a maggioranza per superare la paralisi causata dall’unanimità; ha dato l’alt a Salvini sul Viminale e a fortiori su Esteri e Difesa, mentre circolano nomi non urticanti per l’Economia; e per il Ministero degli Esteri, il più delicato nell’attuale scenario mondiale, avrebbe proposto quello di Elisabetta Belloni (già salutata come la candidata ideale per il Quirinale quando la voleva Conte).
Certamente bisognerà tenere alta la guardia, per esempio sulla Giustizia – per cui si sono sentiti solo i nomi di Giulia Bongiorno e di Carlo Nordio; ma se è rimasta una minima traccia di memoria sappiamo bene che dal ’92 ad oggi abbiamo visto e contrastato ben di peggio.