di Claudia De Martino
Il prossimo 1° novembre si terranno le elezioni per la venticinquesima Knesset in Israele: le quinte in soli 3 anni. Se è probabile che esse vedranno il grande ritorno in scena di Benyamin Netanyahu – figura immortale e araba fenice della politica israeliana come Silvio Berlusconi in Italia – le prossime elezioni vedranno soprattutto un fronte disunito e litigioso nella rappresentanza politica della minoranza araba, il cui astensionismo si annuncia infatti alto (il tasso di partecipazione è ipotizzato intorno al 42%, giù da un apice del 63.5% nel 2015). Sette anni fa, i quattro principali partiti arabi ebbero la felice intuizione di unirsi in un fronte comune, denominato “Lista unita”, capace di conquistare ben 15 seggi al Parlamento israeliano nel 2020 e tuttavia, dopo quello sfoggio di forza e di unità, esse non sono state più capaci di restare unite per conseguire gli stessi risultati.
La prima forza politica a cambiare strategia e scegliere di correre da sola è stato il partito islamista Ra’am nel marzo 2021, che ha considerato le differenze interne alla coalizione di partiti arabi, soprattutto vertenti sui diritti civili e della comunità Lgbt e sulla possibilità di un appoggio o un ingresso in un governo sionista, più importanti del mantenimento di un fronte arabo coeso. È così che si è prodotta anche la più grande novità della ventiquattresima Knesset: l’inclusione per la prima volta in un governo di unità nazionale (“il governo per il cambiamento”) di un partito arabo. Ra’am ha promesso agli elettori arabi che l’hanno appoggiato la concreta opportunità di migliorare le proprie condizioni di vita, combattendo la criminalità diffusa che attanaglia la comunità araba, convogliando maggiori fondi verso i suoi bisogni economici e sociali e lottando per il riconoscimento degli insediamenti beduini informali nel Negev e per il loro allaccio alla rete idrica ed elettrica.
Tuttavia, i risultati di questa strategia di pressione sul governo dall’interno si sono rivelati modesti: nel 2021 il tasso di criminalità interno alla comunità araba non si è attenuato, registrando 121 omicidi in un anno, il numero delle abitazioni arabe demolite a Gerusalemme e dintorni per via della famigerata legge Kamenitz (Draft Planning & Construction Law, Amendment No. 109/5776-2016) non è calato, , gli insediamenti beduini sono stati sì riconosciuti ma circondati da una cintura di nuovi insediamenti ebraici, un cospicuo budget di 9,62 miliardi di euro per il progresso e l’inclusione della minoranza araba è stato assegnato a progetti sociali e infrastrutturali di grande ambizione, ma non ancora versato a dieci mesi dall’annuncio e, infine, a livello simbolico, nessuna decisione di discontinuità ideologica con i governi Netanyahu ad esso precedenti è stata presa dal “governo del cambiamento”, in particolare in merito alla controversa legge sullo Stato-nazione ebraico (2018), che definisce Israele un paese esclusivamente appartenente alla maggioranza ebraica.
Di fronte a questi parziali risultati, gli altri partiti arabi si sono mostrati critici dell’operato di Ra’am e hanno tentato di elaborare strategie alternative ad un sostegno gratuito agli esecutivi sionisti, senza alcuna garanzia sul programma di governo. Così le due tradizionali forze della borghesia araba, il laico partito ex comunista Hadash e il partito della borghesia liberale Ta’al, hanno ventilato la possibilità di sostenere un nuovo governo sionista con un appoggio sia interno che esterno, ma solo se in aperta opposizione a Netanyahu. A tale proposta, l’ultimo dei quattro partiti arabi, il nazionalista Balad, ha reagito con una rottura dell’alleanza tattica con la Lista Unita, adottando una posizione massimalista, ovvero sostenendo non fosse possibile partecipare in alcuna forma alla nascita di un qualsivoglia esecutivo sionista, indipendentemente dalla sua agenda di governo.
Lo strappo di Balad ha provocato un’ulteriore spaccatura nel fronte arabo, che alle prossime elezioni si presenterà diviso in tre blocchi indipendenti (il partito islamista, Ra’am, il campo liberal-progressista, costituito da Hadash e Ta’al e il partito nazionalista, Balad appunto) con quest’ultimo che rischia di sparire dalla Knesset, apparendo nei sondaggi sotto la soglia di sbarramento. La spaccatura della minoranza araba in partiti ideologicamente rivali e in competizione tra loro rischia di provocare come primo effetto negativo una disaffezione generale dell’opinione pubblica araba d’Israele, il cui tasso di astensionismo va crescendo ad ogni nuova tornata elettorale, ma che stavolta, proiettata all’irrilevanza di 8 seggi su 120 contro i 15 delle precedenti, potrebbe essere ancora più tentata dal boicottaggio delle urne.
Un risultato paradossalmente positivo, invece, potrebbe essere quello di vedere un nucleo ristretto di deputati arabi liberal-progressisti appoggiare, sulle orme di Ra’am nella precedente legislatura, un potenziale governo di centro-sinistra a guida Lapid che si proponesse come unico argine ad un eventuale ritorno di Netanyahu. La partecipazione dei partiti arabi al governo è una richiesta che proviene dalla maggioranza dell’opinione pubblica araba d’Israele, che vorrebbe progressivamente contare di più nel Paese in cui non si sente ospitata o tollerata, ma di cui si avverte parte integrante e forza propulsiva. Tuttavia, la spaccatura della comunità in partiti divisi che riflettono ceti sociali e interessi sempre più divergenti, pur competendo nominalmente per una rappresentanza “unitaria” dell’identità araba in Israele, rischia di rivelare l’esistenza di profonde distinzioni economiche e sociali al suo interno e il lento ma inesorabile erodersi delle tradizionali fedeltà nazionali a favore dell’aspirazione ad una normalizzazione, ovvero alla partecipazione attiva alla società israeliana sulla base di preferenze valoriali e di classe.