L’ombra lunga del fascismo (Solferino), a filo di lama del centenario della marcia su Roma, e giusto quelle 48/72 ore dopo la vittoria elettorale di Fratelli D’Italia, è una sorta di cernita ragionata sulla simbologia del Ventennio, e dei due anni saloini, che sembrano palpitare ancora in travertino, granito, o anche solo semplice cemento, nonostante il nefasto epilogo della storia
L’Italia dublefàs che dopo cento anni non fa ancora i conti con il fascismo. Sergio Rizzo e Alessandro Campi la toccano piano, realmente, sul piano dello storico-simbolico. Tracce di menti volitivi, di manifesti della razza, di imprese militari dissennate, di Mussolini family e accoliti tutti, giacciono inerti ma simbolicamente vivi tra vie, piazze, scuole, parchi, angoli delle strade italiane. Cui prodest? Si sa. Semmai preme il “che fare?” L’ombra lunga del fascismo (Solferino), a filo di lama del centenario della marcia su Roma, e giusto quelle 48/72 ore dopo la vittoria elettorale di Fratelli D’Italia, è una sorta di cernita ragionata sulla simbologia del Ventennio, e dei due anni saloini, che sembrano palpitare ancora in travertino, granito, o anche solo semplice cemento, nonostante il nefasto epilogo della storia. La tappa di partenza è la lapide collocata in piazza San Giorgio nel quartiere di Pianura, a Napoli. Lapide che ha un lato A e un lato B. L’A propone uno stralcio tratto dal Discorso di Mussolini sulla proclamazione dell’Impero Fascista, il B ricorda alcuni cittadini antifascisti caduti nel settembre 1943. La A rimane in bella vista dal 1936 al 1943 per poi essere girata, incastrata nel muro esterno del Municipio e infine esposta solo dal nuovo lato con la dicitura in memoria degli antifascisti uccisi nei giorni della Liberazione. Il muro rimane tale fino a quando nel 2015 un consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Marco Nonno, decide di “riesumare” il lato A della lapide che poi pulita e lucidata finirà nella piazza limitrofa così, proprio double face: fascista da un lato, antifascista dall’altro.
Come riportano i due autori nel libro, è Nonno a spiegare cosa voglia dire quell’oggetto di marmo: “Rappresenta in maniera plastica la storia del popolo italiano, cioè quel popolo che fino al 1943 era tutto fascista e che il giorno dopo, senza neppure cambiare il marmo, ha girato la lapide e sulla stessa lapide ha indicato i morti antifascisti”. Difficile allora provare a svellere quello che sembra un destino politico che deve ripetersi in tutta la sua prepotenza del Ventennio ancora oggi. Del resto, fanno capire Rizzo e Campi, la targa partenopea e una delle mille, e forse ancor più contraddizioni dell’esposizione della memoria fascista tra strade, edifici e cultura italiana tutta. Il menù è così ricco da far lievitare il libro ad oltre 400 pagine. A volo d’uccello: la targa che nel 2009 a Cosenza si scopre in memoria di Michele Bianchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, operazione difesa e promossa da un ex DC; le numerose vie del Littorio presenti in ogni angolo d’Italia (Roccasecca (Frosinone), Mileto (Vibo Valentia), San Polo Matese (Campobasso) a Ficuzza (Palermo); il giardinetto intitolato a Rodolfo Graziani in un paesino in provincia di Frosinone (occultato da google maps ndr); nel 1999 l’intestazione di una via, a Vairano Patenora (Caserta), alla memoria del ministro fascista Bottai, che condivise e applicò le leggi razziali (anche se poi sottoscrisse l’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943).
Una vicenda, quest’ultima che si protrae nel tempo perché all’inizio il Prefetto concede pure l’approvazione e si mette per traverso quando una nuova giunta cinque anni dopo vuole sostituire via Bottai con Via Perlasca, l’italiano che salvò 5mila ebrei ungheresi dai campi di sterminio. Incroci pericolosi di senso, quell’ombra lunga double face che vuole parificare vincitori e vinti. Basti pensare a quell’istituto scolastico di Noicattaro in Puglia che ha un nome incredibile: Gramsci-Pende: “Di qua una delle vittime più illustri delle carceri fasciste, nelle quali l’intellettuale comunista fu rinchiuso per anni su mandato di Benito Mussolini fino al ricovero in ospedale dove sarebbe morto; di là un uomo che fu sì candidato tre volte al premio Nobel ma anche un razzista e fascista convinto”. E più ne scopri più altre te ne vengono dietro. Pensate che è stata la giunta Raggi a Roma a cancellare due vie intitolate a dei docenti firmatari del Manifesto della Razza (Zavattari e Donaggio) l’uno con via Enrica Calabresi, zoologa che preferì il suicidio alla deportazione, e l’altra a Mario Carrara, medico antifascista che rifiutò di giurare fedeltà al regime, morto in carcere a Torino. Ancora un altro esempio di Italia dublefas? A Lecce via Vincenzo Gigante, partigiano brindisino, incrocia stranamente via Ettore Muti, una delle anime più viscide e omicide del Ventennio e di Salò. Poi è chiaro, è complesso provare a mettere da parte il Duce, la “buonanima”, “spettro trasversale”, richiamo inconscio di un’epoca che fatica a dissolversi nel vento del passato. Basta digitare su Google “Benito Mussolini” e in mezzo secondo compaiono quasi dieci milioni di risultati (Enrico Berlinguer 2milioni e mezzo per dire).
“Insomma, martellare, saturare lo spazio visivo, porre ovunque dei presidi simbolici, con l’obiettivo di realizzare, come ha scritto Riccardo Bianchi, ‘una sorta di perenne epifania virtuale del duce’ e dello stesso fascismo”, spiegano gli autori. Tracce che anche quando le si cerca di cancellare, come per un busto del Duce incastonato nel muro a Montà – Cuneo – che a forza di piogge e vento è riemerso recentemente dalle ceneri come un’araba fenice. “La ragione del perché il fascismo continua a proiettare la sua ombra lunga sul nostro presente, è probabilmente un’altra – scrivono Rizzo e Campi – dopo cento anni dalla sua ascesa al potere ancora abbiamo paura di confrontarci apertamente con quel passato e con quella storia, che peraltro conosciamo poco e male. Continuiamo a sfuggire la responsabilità di scelte, dal colonialismo alle leggi razziali, dalla soppressione di ogni libertà alla guerra, che sono state sì di Mussolini e del suo regime, ma che si sono potute realizzare solo con la collaborazione attiva, il sostegno o, magari, il silenzio complice e opportunistico di milioni di uomini e donne di tutte le condizioni sociali, dal Nord al Sud. Il fascismo l’abbiamo inventato noi italiani. Tocca dunque a noi farci i conti senza più sconti e indulgenze, senza alibi autoassolutori. E senza nulla nascondere di quel periodo, che comunque rimane un pezzo importante della nostra storia collettiva”. Perché va bene la conoscenza e il sapere, o la nostalgia di qualcuno sul suo comodino di casa, ma spartire istituzionalmente con convinzione ancora qualcosa “con quei fantasmi del passato” sarebbe un errore macroscopico che un paese democratico non può più permettersi.