Scavallate le elezioni, non sono ancora del tutto metabolizzati i traumi degli sconfitti e neppure completamente sbolliti gli entusiasmi dei vincitori. Eppure – nonostante la chiarezza esemplare del risultato scaturito dalle urne e a dispetto di una maggioranza apparentemente coesa in entrambi i rami del Parlamento – i presagi sul futuro del governo Meloni sono tutt’altro che rosei. Troppe crisi, tutte assieme (geopolitica, energetica, post-pandemica, economica, sociale) congiurano a disegnare all’orizzonte i contorni della cosiddetta “tempesta perfetta”. E tale opinione è condivisa sia da chi confida in un repentino naufragio dell’esecutivo di prossima formazione, sia da chi si augura, invece, una sua navigazione tranquilla.

Secondo entrambi i fronti il problema principale di Meloni sono, come sempre, le “risorse”: immancabilmente mancanti. Un Paese, quale il nostro, a sovranità monetaria limitata deve fare i conti, in ordine sparso, con: un debito pubblico monstre, i parametri di Maastricht (solo momentaneamente sospesi), la conseguente impossibilità di fare “scostamenti” in deficit se non a prezzo di estenuanti trattative con le istituzioni europee, le 527 condizionalità del Pnrr (costituito, per la gran parte, di debiti da restituire), le fibrillazioni dei mercati, l’occhiuta vigilanza delle agenzie di rating eccetera eccetera. Dove troverà Palazzo Chigi i soldi per affrontare il ciclone in arrivo?

Ebbene, una risposta potrebbe venirci da un “rimedio” introdotto dal Governo Conte I e poi contrastato con ogni mezzo (da chi ne prese il posto) in quanto asseritamente pernicioso, foriero di inflazione e delle peggiori corruttele. Ci riferiamo, è evidente, al famoso Superbonus 110% collegato all’edilizia. Di cui si è detto tutto e il contrario di tutto, ma forse non si è adeguatamente colta l’intima, rivoluzionaria natura. Lo strumento è, in buona sostanza e in ultima analisi, una moneta a tutti gli effetti: creare crediti d’imposta cedibili equivale, né più né meno, che a battere moneta. Moneta in euro, non vietata dai trattati, non rubricabile nel novero della “moneta-debito” tradizionale generata dal circuito bancario come controvalore dell’emissione di titoli del debito pubblico. Infatti, i crediti fiscali sono sconti sulle tasse future, ma lo Stato (a fronte della loro emissione) non si indebita fintantochè il credito fiscale è concepito come non rimborsabile.

Questa moneta fiscale potrebbe anche essere svincolata da uno specifico settore (ad esempio, l’edilizia). Se poi fosse cedibile erga omnes senza limitazioni, produrrebbe lo stesso identico effetto di una poderosa iniezione di liquidità nel sistema. E forse è proprio questa la ragione per cui l’ex Presidente della Bce, l’osannato successore di Conte, ha cercato in tutti i modi di denigrare e di osteggiare tale strumento monetario “alternativo”. Esso, infatti, è in grado di restituire allo Stato che decida di dotarsene (e di sfruttarlo anziché boicottarlo, valorizzandolo fino in fondo) la sovranità monetaria “classica”. Quella, per intenderci, perduta o quantomeno paralizzata con il nostro ingresso nell’area euro.

Una delle più tipiche e note obiezioni all’impiego di questo vero e proprio uovo di Colombo è che aprirebbe una voragine nei conti del Paese, nel momento in cui venissero a maturazione (cioè fossero effettivamente usati per pagare le tasse) i crediti fiscali messi in circolo. Sennonchè oramai numerosi studi, ma anche diverse evidenze empiriche, dimostrano come gli “sconti” di cui trattasi inneschino un processo di crescita, e un conseguente gettito tributario, in grado di sovracompensare il futuro “buco” di bilancio potenzialmente generato con la loro emissione. Basti pensare al giro d’affari originato dal Superbonus 110% cui dobbiamo, in buona parte, la decantata crescita del 2022. Ovviamente, tutto ciò può funzionare nella misura in cui il governo (lungi dall’ostacolarlo) assecondi il circolo virtuoso in questione.

A questo punto, la domanda diventa: cosa impedisce al nuovo Consiglio dei Ministri di scommettere su questa ghiotta opportunità? La Commissione europea? Non ci risulta. I mercati? E perché mai? I parametri della golden rule comunitaria? Assolutamente no, per quanto anzidetto. In pratica, è una misura che dovrebbe piacere sia ai sovranisti sia agli europeisti: ai primi perché restituisce potere di intervento allo Stato, ai secondi perché lo fa senza mettere in discussione i rapporti con Bruxelles e Francoforte.

Un ultimo, piccolo, promemoria. In Parlamento giace una proposta normativa pronta all’uso: il Disegno di Legge n. 1945. Basta solo discuterlo, eventualmente migliorarlo, e infine votarlo. Oppure spiegare perché questa “pacifica” rivoluzione non dovrebbe essere adottata da forze politiche, come Lega e Fratelli d’Italia, che da anni dicono di battersi per una riconquistata centralità e autonomia dell’Italia nei confronti del cosiddetto “vincolo esterno”.

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