Anche in questa tornata elettorale, come nel 2018, circa il 60% dei voti è andato a forze politiche fortemente critiche nei confronti delle regole di bilancio europee. “I cittadini esprimono il loro dissenso e disagio abbracciando partiti che lo traducono in una richiesta di radicale modifica delle attuali regole di ‘convivenza fiscale'”, è la lettura di Gustavo Piga, ordinario di Economia Politica a Tor Vergata, membro del comitato scientifico dell’Ufficio parlamentare di bilancio e autore di L’Interregno, una terza via per l’Italia e l’Europa (Hoepli). L’austerità imposta dal Fiscal compact, il patto intergovernativo del 2012 sul pareggio di bilancio, ha fallito e ha contribuito a far rimanere l’Italia “grande malato” dell’area euro, ribadisce l’ex presidente Consip. Il Recovery plan non ha cambiato le carte in tavola: anzi, ha reintrodotto sotto mentite spoglie un meccanismo che impone ancora una volta la rapida riduzione del deficit proprio mentre servirebbero più investimenti pubblici.
A guidare il nuovo governo sarà con tutta probabilità Giorgia Meloni, che in uno degli ultimi comizi pre elettorali ha avvertito l’Ue: “È finita la pacchia, l’Italia si metterà a difendere i suoi interessi nazionali”. E’ stato un voto contro Bruxelles?
Sommando i voti di FdI, Lega, M5s, Verdi e Sinistra italiana, Italexit e Unione popolare si arriva vicino al 60%. Partiti che chiedono di ripensare la politica fiscale europea. Fino a un decennio fa questa maggioranza non esisteva: si è consolidata perché i cittadini hanno preso atto che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nelle politiche di austerità. Ciò non significa che il nostro Paese non abbia le sue responsabilità. Diciamo che il combinato disposto tra regole del gioco e debolezza strutturale ci hanno arretrare. Nel 2000 l’Italia produceva il 18% della ricchezza dell’area dell’euro mentre nel 2023 ne produrrà solo il 12%, nel 2000 i suoi cittadini avevano un reddito pro capite che era quattro volte quello mondiale e ora è solo il doppio, gli ultimi dati Ocse dicono che è lo Stato che ha recuperato meno di tutti dopo la crisi Covid confermandosi il “malato dell’area euro” (e l’area euro è a sua volta il malato dell’Occidente).
Ma con il Next generation Eu l’epoca dell’austerity non è finita?
No, è stato un trucco. Visto che non si è riusciti a far passare al Parlamento europeo l’inserimento del Fiscal compact nei trattati, quando è arrivato il Covid si è colta l’occasione per inserirlo nel regolamento del “dispositivo per la ripresa e la resilienza”: l’articolo 10 dice che i soldi arrivano solo se il Paese continua a rispettare quei paletti. I governi italiani si sono adeguati. Quello guidato da Mario Draghi ha scritto nel Def 2021 che il deficit/pil sarebbe calato dall’11,8% al 3,4% in soli tre anni. Nella Nadef 2021 ha promesso per il 2o22 una discesa al 5,6% e per il 2023 una riduzione al 3,9%. Nel Def 2022 non ha modificato quei dati anche se l’economia ha iniziato ad andare peggio del previsto. Ma scendere dal 5,6 al 3,9% avrebbe significato 40 miliardi di minori spese e maggiori entrate fiscali, in un contesto di guerra e crisi energetica e proprio mentre la politica monetaria ha smesso di fornire supporto alla ripresa.
Che cosa può fare il prossimo governo?
Se Meloni confermasse il deficit/pil 2023 al 3,9% previsto nel Def 2022, nonostante la Nadef a politiche invariate abbia rivisto molto al ribasso la crescita prevista, sarebbe clamoroso. Si metterebbe in scia ai governi dell’ultimo decennio, che hanno dimostrato che a comandare era il Fiscal compact e non loro. I gialloverdi all’inizio hanno sì fatto uno scostamento, ma poi l’hanno usato per l’inutile quota 100 e per il reddito di cittadinanza, a cui non sono contrario ma che per chi può lavorare deve essere davvero collegato al lavoro. Per il 2023 il minimo sarebbe mantenere il deficit invariato al 5,6% del pil, che era il livello previsto fino alla scorsa primavera, “guadagnando” così circa 40 miliardi. Anche se da economista io sarei favorevole a portarlo al 7-8% e usare lo spazio fiscale per fare investimenti.
Ma se Meloni decidesse di fare più deficit l’Italia non sarebbe subito punita dai mercati?
Se la politica esercita il suo ruolo i mercati si adeguano. Lo abbiamo visto con il Whatever it takes, quando la politica monetaria è cambiata sulla scia della leadership della Merkel supportata da Draghi alla Bce. Se i maggiori leader europei da Macron a Scholz andassero insieme in conferenza stampa a dare il proprio supporto a un piano di ripresa italiano basato su maggior deficit con l’obiettivo però di fare investimenti per aumentare il tasso di crescita, il che farebbe poi calare il rapporto debito/pil, non ci sarebbero problemi. Se invece continuassero ad alimentare il falso stereotipo dell’Italia cicala…
In quel caso bisognerebbe fare marcia indietro?
In quel caso, per portare avanti un piano del genere una leader che arriva al governo oggettivamente debole sul piano internazionale, senza reputazione, dovrebbe portare al tavolo europeo qualcosa in cambio.
Che cosa potrebbe offrire il governo italiano come “garanzia”?
La madre di tutte le riforme, che nessun governo ha mai davvero voluto fare: una sconvolgente e ambiziosissima riforma della macchina amministrativa che porti con sé una vera spending review. Non i tagli di spesa renziani e cottarelliani, una vera ricerca delle sacche di sprechi che consenta di dire: spenderemo di più ma spenderemo bene. Gli appalti pubblici valgono il 15% del pil e su quella marea di soldi almeno 40 miliardi (2% del pil) sono sprechi, legati in parte alla corruzione ma in parte ben più grossa a incompetenza. Azzerare quegli sprechi vuol dire recuperare abbastanza soldi per tamponare le emergenze di questi mesi, a partire dal caro bollette, e poter utilizzare il maggior deficit per aumentare gli investimenti.
Pensa quindi a un altro commissario alla revisione della spesa?
No, per carità. Come dico da anni dovremmo puntare su 107 stazioni appaltanti provinciali – le Province hanno la dimensione giusta per scrivere bandi non troppo grandi, a misura di pmi – in cui assumere i migliori giovani laureati in ingegneria, architettura, ingegneria. informatica, da affiancare agli ormai vecchi funzionari esperti di appalti che tra poco usciranno dalla pa. Assumiamoli pagandoli molto bene e mettiamoli subito al lavoro: saranno loro a ridurre gli sprechi, con ritorni immensi, e a consentire la messa a terra dei fondi del Recovery e degli altri che si deciderà di investire.
È giusto chiedere modifiche al Recovery plan?
La macchina del Recovery non sta funzionando perché l’amministrazione non è stata rafforzata. Il governo Draghi ha assunto a termine un migliaio di persone con test a risposta multipla, con concorsi che spesso sono pure andati a vuoto a causa dei salari troppo bassi. Risultato: su 15 miliardi di spesa previsti per il 2021, solo 5 sono stati effettivamente “messi a terra”. Quindi ben venga il ricalcolo del valore delle gare, visto che con l’aumento dei prezzi si rischia che le imprese non partecipino nemmeno, ma ripeto che l’unica vera riforma necessaria è quella delle stazioni appaltanti. Lo hanno scritto anche Tito Boeri e Roberto Perotti, litigando per questo con Francesco Giavazzi: c’è troppo poca capacità progettuale e di spesa a livello locale e troppe grandi gare, fatte su misura delle multinazionali invece di favorire la partecipazione delle nostri pmi.
Ha speranze nella riforma del Patto di stabilità che sarà discussa nei prossimi mesi?
È solo fiscal washing, un maquillage gattopardesco per mantenere le cose come sono sempre state. Una carta però Meloni ce l’ha: è potere di veto. Queste modifiche si fanno all’unanimità e l’Italia può pretendere regole fiscali che durante le crisi permettano di combattere la crisi, come insegnava Keynes, invece che accelerarla. Alcuni amici di Meloni hanno esercitato il veto in modo sbagliato, lei potrebbe mostrare che quel potere si può usare anche per difendere dei diritti.