Un paio di giorni fa, mentre in decine di città del Paese esplodeva la protesta degli iraniani in seguito alla morte di Mahsa Amini, dalla desolata regione orientale del Sistan e Balucistan, e precisamente dalla cittadina di Rask, si diffondeva una notizia significativa, se messa in relazione al contesto in evoluzione. In breve, dopo giorni di silenzio, l’Imam locale della preghiera del venerdì, Maulavi Abdul Ghaffar Naghshbandi, denuncia pubblicamente ad alcuni media locali uno stupro commesso ai danni di una 15enne. Naghshbandi fa direttamente il nome dell’autore: è il colonnello Ebrahim Kouchakzaei, cioè il capo della polizia locale. “Ho ascoltato da vicino le parole piene di dolore e angoscia della mia piccola sorella oppressa. Il petto mi intrappolava il respiro a causa della gravità di questo crimine”, ha riferito ai media locali Naghshbandi dopo aver parlato con l’adolescente. “So che è mio dovere rompere questo nocivo silenzio, così che l’autore possa essere punito per le sue azioni vergognose. Chiedo al potere giudiziario di investigare il prima possibile e da diverse angolazioni questa tragedia, giustiziandolo in pubblico“, ha aggiunto Naghshandi con un riferimento alla possibilità di eseguire una condanna a morte in pubblica piazza, pratica abbastanza diffusa in questa regione dell’Iran, dove da anni queste condanne si attuano soprattutto nei confronti dei trafficanti transfrontalieri col Pakistan che spesso sostengono scontri a fuoco con i Guardiani della Rivoluzione (Irgc).
La denuncia di Naghshbandi non è rilevante solo perché prende di mira un esponente del comparto militare e di pubblica sicurezza iraniano ma perché, in qualità di Imam della preghiera del venerdì, il chierico viene nominato direttamente dalla Guida Suprema Ali Khamenei, per cui di fatto ricopre il ruolo di rappresentante locale. Si tratta di un elemento che può forse aiutare a far luce sul grado di coesione interna dell’establishment iraniano e, di riflesso, anche sulle reali direzioni della protesta in corso.
Nelle stesse ore, mentre alcuni religiosi come Mahmoud Nabavian, Zohra Lajevardi, l’imam della preghiera del venerdì di Mashhad, Ahmad Alamolhoda (che in funzione anti-Rouhani aveva invece sostenuto le proteste del 2017, di natura economica) o l’ex di quella di Teheran, Ahmad Khatami, sminuivano, condannavano o ingiuriavano i manifestanti, altri rompevano i loro rispettivi silenzi. “Le autorità devono mostrare sensibilità verso i diritti del popolo, ascoltare le loro istanze e risolvere i loro problemi”, ha scritto sul proprio sito web il 97enne ayatollah Hossein Nuri Hamedani. Frasi simili a quelle pronunciate giorni prima da un altro ayatollah, Asadollah Bayat Zanjani, con la differenza che Hamedani, a differenza di Zanjani, non è di orientamento riformista – come i giornali Shargh ed Etemad, che nei giorni scorsi hanno chiesto l’abolizione della Gasht-e Ershad, la polizia religiosa – ma si colloca nel campo “ultraconservatore”, oltre ad essere un fermo sostenitore della Guida Suprema.
Non sono i soli: ieri, rivolgendosi ai cronisti locali, l’ayatollah Ali Akbar Massoudi Khomeini ha definito “il trattamento delle donne da parte della polizia religiosa contrario agli insegnamenti dell’Islam“, aggiungendo poi che “solo i giudici islamici possono decidere a proposito dell’hijab, e in ogni caso nemmeno loro possono dire a una donna che il suo velo non rispetta le norme islamiche e punirle”.
Le proteste di centinaia di migliaia di iraniani prendono per molti versi di mira l’intera architettura istituzionale e normativa della Repubblica islamica. Sarebbe però fuorviante parlare di un conflitto tra società civile e il “clero” sciita, perché le fratture seguono linee differenti, e quella del “popolo” contro “gli ayatollah” può essere una formula che si presta a malintesi. Quella degli iraniani è una protesta contro un sistema di potere dai tratti sempre più militareschi, e in parte contro degli aspetti dell’ideologia che regola lo Stato etico iraniano, cioè il vilayat-e faqih, “il governo del giusperito” (la teoria dello stato elaborata da Khomeini durante il suo esilio, durato dal 1963 al 1979).
La religione gioca un ruolo marginale – al velo obbligatorio si oppongono anche tante persone religiose ma poco politicizzate -, e appare dirimente invece la fedeltà ad alcuni principi ideologici: se non altro perché nel corso degli ultimi 40 anni le critiche più argomentate e taglienti verso il vilayat-e faqih sono venute da figure religiose: dall’hojatoleslam (nonché ex presidente) Mohammad Khatami a Mohsen Kadivar, Ali Mohammad Dastgheib Shirazi, Hadi Khamenei (fratello minore della Guida), passando per l’ayatollah Ali Muntazeri, fino all’ayatollah Yousuf Sanaei, che per le sue rimostranze nel 2012 era stato privato della qualifica di “marja-e taqlid” da una importante associazione di chierici nel seminario di Qom.
Sin dalla morte di Khomeini, oltre alle faglie prodotte all’interno della dinamica società civile iraniana, esiste un conflitto, a volte esplicito e a volte latente, che viaggia su un duplice binario: quello sull’eredità della visione di Khomeini, e quello sul bilanciamento tra dimensione “islamica” e dimensione repubblicana e popolare del sistema, in parte collegato al primo. Ai due estremi dello spettro c’è chi, come l’Ayatollah Mesbah Yazdi, criticava nel vilayat-e faqih proprio l’assorbimento della nozione di processo elettorale, ritenendolo ridondante o nocivo in un sistema “governato dal volere divino”, e chi invece – forse il maggior contributo è arrivato proprio dalla Teoria dello Stato del citato Kadivar – ha sempre promosso la graduale preminenza della dimensione democratico-popolare, soprattutto dalla morte dell’irreplicabile Ruhollah Khomeini.
Rispetto all’eredità del non sempre inequivocabile messaggio khomeinista, il quadro è complicato dal fatto che da una parte, oggi, i più arditi sostenitori del vilayat-e faqih, della sua intoccabilità e di quella della Guida Suprema, della sua dimensione antagonista nel rapporto con l’Occidente e della sua irriformabilità, sono proprio i “principalisti”, sia religiosi che “laici”. Dall’altra, dal fatto che le persone più vicine a Khomeini, soprattutto nel periodo che precedette la sua morte, sono personalità di orientamento riformista, il più celebre dei quali è forse Mir Hossein Mousavi, politico agli arresti domiciliari da oltre 10 anni in seguito alle proteste scaturite dalla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad che lo batté servendosi di presunti brogli nel voto del 2009.
Lo stesso Ahmadinejad, figura sui generis del panorama iraniano per l’impossibilità di ricondurlo a un campo preciso, simboleggiava bene questa dinamica: primo presidente “laico” – nel senso di non appartenente al “clero” – del Paese e allo stesso tempo molto più reazionario ed oltranzista di diverse figure religiose del Paese.
È complicato sintetizzare e classificare in modo organico i posizionamenti dei religiosi iraniani: c’è chi ha posizioni rigide per quel che riguarda i diritti e le libertà, e allo stesso tempo aperte per quel che concerne il rapporto con l’Occidente, spesso sovrapponibile a una critica verso l’impegno militare iraniano nella regione. O chi, al contrario, ha posizioni non letteraliste, aperte all’interpretazione su materie sociali ma una postura estremamente aggressiva verso l’Occidente e in generale sulla politica estera. Le combinazioni possibili sono molte, agli occhi dell’osservatore occidentale, che invece tende a categorizzare e dividere il campo in modo netto, per semplificare la comprensione.
Questo non solo perché la nascita della Repubblica islamica ha tutt’altro che sopito la dimensione nazionalista, ma anche perché è in un certo senso errata la percezione secondo cui l’Iran sarebbe un Paese governato dai “religiosi” e ancor più errata quella per cui i “religiosi” siano l’architrave di uno stato di polizia. La Repubblica islamica – ed è questo l’aspetto preso più di mira dalle proteste – è oggi governata soprattutto dagli alti gradi dell’Irgc – protagonista nella regione da una decina d’anni – che mantiene le proprie rendite di posizione e il proprio potere anche servendosi di religiosi organici che ne legittimano la primazia. Gli stessi che hanno partecipato alla redazione di un documento di 119 pagine pubblicato lo scorso agosto dalla Setad (“Progetto hijab e castità”), un organo parastatale che risponde direttamente alla Guida Suprema, nel quale si annunciano e delineano i tratti del rafforzamento della repressione di chi non rispetta il “dress code”. E dal quale, col senno di poi, si potevano forse desumere i germi della repressione in corso.