di Carmelo Sant’Angelo

Dopo la débâcle del Pd, grazie alla rotta suicida impostata dal segretario e seguita da tutti gli ufficiali in plancia, è il momento delle posticce sedute collettive di psicoanalisi. Esse si svolgono nei salotti televisivi, mentre nelle sedi istituzionali i maggiorenti non hanno nemmeno il coraggio di assumersi la responsabilità della sconfitta. La colpa è di Conte e/o di Calenda e, se fossero meno pavidi, chiederebbero persino di “cambiare il popolo”, che ha sbagliato a votare. Qualora il Pd ed il suo sedicente gruppo dirigente avessero realmente voglia di guardarsi allo specchio lo potrebbero fare rileggendo la definizione di “partito” (“macchine di potere e clientela”) data da Enrico Berlinguer ad Eugenio Scalfari, il 26 luglio del 1981. Capisco che Berlinguer possa provocare l’orticaria sulle pelli ammorbidite dal veltronismo ed idratate dal renzismo, per cui optiamo per un autore più trasversale: Robert Michels.

Nato da una ricca famiglia di imprenditori tedeschi, allievo di Max Weber, s’iscrisse al partito socialdemocratico tedesco per aderire, dopo la prima guerra mondiale, al partito fascista italiano. Fa parte del trio della cosiddetta “Scuola italiana dell’elitismo”. Nella sua opera più celebre (“La sociologia del partito”) Michels dimostrava che anche i partiti politici, persino quelli socialisti più estremi, si trasformassero rapidamente in burocrazie oligarchiche. L’élite oligarchica si caratterizza per una stretta connessione tra competenza, indispensabilità e inamovibilità. Ovviamente i membri della direzione del Pd sono di per sé “competenti”, “indispensabili” (soprattutto per formare i governi) ed “inamovibili”. Quando si sostituisce qualcuno lo si fa attingendo sempre dalla stessa corrente, per non mutare gli equilibri (come l’avvicendamento Marcucci-Malpezzi).

Sempre secondo Michels, le conseguenze dell’affermazione di un’oligarchia sono di tre tipi. Rispetto:
a) agli oppositori, si assiste a una chiusura di casta del gruppo dirigente e al ricorso a pratiche di cooptazione.
b) al Partito si verifica, da un lato, il fenomeno della “sostituzione dei fini”, cioè “l’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a sé stessa”, e, dall’altro, si accresce la prudenza, l’immobilismo, quando non addirittura la conservazione.
c) agli iscritti o agli elettori, infine, si manifesta una crescente differenziazione degli interessi e delle aspettative, cui si accompagna una concomitante deresponsabilizzazione dei leader nei confronti dei propri seguaci.

Le descritte conseguenze sono già tutte presenti nel Pd:
a) le primarie – quando celebrate – sono una farsa, circoscritta all’oligarchia del partito;
b) il partito è il mezzo per consentire ai capi-corrente di diventare ministri (basti guardare la morente compagine di governo) e di lottizzare il potere. Di fronte ai reiterati insuccessi nulla cambia, limitandosi a cooptare qualche volto nuovo (la Serracchiani ieri, Elly Schlein oggi), per paura che la “ditta” possa scricchiolare e dare segni di cedimento;
c) sullo scollamento con la base è inutile infierire. Cosa hanno fatto di male gli elettori di Napoli-Fuorigrotta per meritarsi Di Maio? A questo punto perché non candidarlo a Bibbiano?

Nonostante Michels abbia scritto l’opera nel 1911 è riuscito anche a vaticinare il futuro del Pd: non avverrà alcuna sostituzione dell’odierno gruppo dirigente. Le correnti coopteranno un nuovo volto che ne assicuri la conservazione. Che l’autoconservazione della nomenclatura sia l’unico fine perseguito dal partito è palesemente dimostrato dal fatto che, nelle recenti elezioni, nessun leader era candidato nel collegio uninominale, ma tutti, con sprezzo del pericolo, nel proporzionale. È ininfluente che Enrico Letta lasci o meno la segreteria, è sufficiente che scenda dal piedistallo costruitogli dal mainstream. Per il popolo di sinistra sarà per sempre “Lecta”, colui che, come Luigi Facta, spalancò le porte del governo alla destra.

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