Come le lettrici e i lettori sanno, martedì scorso il giudice del tribunale di emergenza di Mansura ha disposto un ulteriore rinvio del processo nei confronti di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna arrestato al Cairo il 7 febbraio 2020.

Dopo 22 interminabili mesi di detenzione preventiva, terminati il 7 dicembre 2021, è iniziata un’altra lunga attesa: quella della fine di un processo nel quale Zaki è accusato del kafkiano reato di “diffusione di notizie false” per aver scritto il vero a proposito della discriminazione cui è sottoposta la minoranza religiosa copta. Le già molte udienze del processo saranno durate, complessivamente, non più di una ventina di minuti: quelli necessari per rimandare a un mese dopo, a due mesi dopo e così via. Zaki comparirà nuovamente in tribunale il 29 novembre.

In pratica, prima trattenuto in carcere e ora in libertà provvisoria col divieto di viaggiare all’estero, è come se Zaki stesse scontando già una condanna. Che il 29 novembre sarà arrivata a oltre 33 mesi di privazione della libertà, totale o parziale che sia. Del resto, in Egitto funziona così: lo scopo della detenzione preventiva è esattamente quello di togliere il detenuto dallo spazio pubblico impedendogli anche di difendersi, perché non c’è un giudice davanti al quale farlo. E quando il giudice c’è, il diritto a un processo equo non viene rispettato: in questi mesi non c’è stata mai una volta in cui la difesa di Zaki abbia potuto contestare le prove dell’accusa, semplicemente perché non vengono presentate.

Anche questa storia, come migliaia di altre che conosciamo di meno, ci conferma che la Strategia nazionale per i diritti umani, lanciata in pompa magna dal governo egiziano un anno fa, è una mera operazione cosmetica, uno specchietto per le allodole, un’operazione di marketing destinata a tranquillizzare eventuali governi critici (semmai ce ne fossero) e a organizzare senza problemi la Cop27.

Con buona pace di coloro che si erano illusi che proprio la Cop27 di Sharm el-Sheikh potesse essere uno strumento per risolvere la vicenda giudiziaria di Zaki. In questi anni abbiamo appreso che solo pressioni forti e costanti della diplomazia possono portare alla scarcerazione dei prigionieri di coscienza. L’Egitto dà se qualcuno chiede. Ma l’Italia non chiede.

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