Abbiamo analizzato il fenomeno con il professor David Lazzari, presidente del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi
Un’occhiata al cellulare, il dito scorre quasi in modo automatico e l’attenzione cade, inesorabilmente, su una cattiva notizia. Un gesto tutt’altro che raro, visto che gli si è dato anche un nome, doomscrolling: la tendenza a cercare in modo ossessivo cattive notizie nel web. E un recente studio pubblicato sulla rivista Health Communication lo ha analizzato più in dettaglio, intervistando 1.100 persone, di cui il 16% ha mostrato livelli crescenti di stress, ansia e malattie. A guidare la ricerca, il professore associato Bryan McLaughlin, ricercatore presso la Texas Tech University. Che ha sottolineato quanto questo fenomeno causi “un costante stato di allerta”, e aumenti la percezione del mondo come un luogo “oscuro e pericoloso”. Non solo, l’abuso di cattive notizie sembra generare stati ossessivi. Che i media abbiano sempre avuto la tendenza a diffondere bad news, è un elemento costante. Ma oggi che cos’è cambiato con la consultazione costante di social e news attraverso i cellulari? “Sono cambiati in modo drammatico i ritmi e l’intensità con cui arrivano le notizie. Dopo la rivoluzione dei radio e tv oggi siamo nell’epoca di internet e dei social che hanno mutato profondamente certe dinamiche”, sottolinea il professor David Lazzari, presidente del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi. “Oltre a essere molto più accessibili e disponibili i canali informativi si sono moltiplicati, non solo nel numero ma anche nel ruolo. Con i social i confini tra produttori e consumatori di notizie sono molto più incerti e ambigui, spesso non esistono”, continua Lazzari, “e l’effetto di moltiplicazione e amplificazione è molto forte. C’è una disponibilità di informazioni quasi illimitata, anche se il comune cittadino non ha molti elementi di controllo e verifica su questo flusso”.
Dottor Lazzari, a quale bisogno risponde la ricerca di cattive notizie?
“Ci sono molteplici meccanismi che spingono in questa direzione. Non per tutti valgono le stesse motivazioni. La ragione forse più comune è, paradossalmente, una spirale legata all’ansia. Uno degli effetti dell’ansia è il senso di insicurezza e il bisogno di controllo e verifica. La base è evolutiva: monitorare il contesto è protettivo in un ambiente ostile, avere informazioni può fare la differenza. Ma il cervello non è programmato per l’ambiente sociale di oggi. Solo una buona consapevolezza psicologica può aiutarci”.
Nella sua attività terapeutica ha riscontrato questo fenomeno indicato dalla ricerca? Quali sono i sintomi più tipici?
“Credo che la nostra professione si stia confrontando con questa situazione in molti modi. Studiando il problema, mettendo a punto interventi per ridurre le conseguenze e aiutando le persone che si rivolgono a noi. Con la pandemia abbiamo assistito a un aumento dei problemi causati da un’esposizione eccessiva ai vari canali informativi, molte persone mi hanno riferito di sentirsi dipendenti da questa situazione e di viverla come una fonte di stress. I sintomi sono disturbi psichici e somatici, a dimostrazione della interdipendenza tra psiche e corpo, e di quanto il malessere psicologico incida sulla salute in generale”.
È vero che si può produrre una dipendenza rispetto a questi stimoli cognitivi?
“Ormai ci sono molti studi che evidenziano un impatto sulla salute in una percentuale significativa delle persone. Addirittura, c’è un rapporto documentato tra quantità e qualità di esposizione e conseguenze. C’è un dibattito sulla collocazione tra questi problemi tra le dipendenze, ma certamente in molti casi si crea una spirale negativa”.
Come liberarsene?
“Occorre un’informazione seria su questi temi, che passi anche nella scuola. Senza allarmismi, ma che promuova la consapevolezza e l’educazione che serve. Abbiamo bisogno di avere strumenti per convivere con un contesto informativo così pervasivo e nuovo rispetto al passato. Ovviamente un aiuto psicologico può essere molto importante per imparare a gestire la situazione e superare gli effetti negativi”.
Un ultimo consiglio per un approccio equilibrato con il telefonino?
“È fondamentale proprio il concetto di equilibrio. Quando ce ne allontaniamo, facciamo danni. Cerchiamo di ricordare che il cellulare deve essere un mezzo e non un fine: è al nostro servizio e non noi al suo. Oggi i telefonini sono progettati per un’immersione h24 con noi, ma dobbiamo mettere dei paletti. Tutte le cose quando se ne abusa diventano negative. Poniamoci quindi la domanda: chi ha il controllo, noi o il cellulare?”.