di Andrea Marchina
Alcune riflessioni dopo il voto. Senza ombra di dubbio il centrodestra, anche grazie ai meccanismi della legge elettorale, avrà la maggioranza parlamentare necessaria a garantire un governo potenzialmente stabile e sicuramente sostenuto da un discreto consenso popolare.
Consenso che, tuttavia, non rappresenta la maggioranza degli elettori per due motivi. In primo luogo, banalmente, perché la somma dei voti “reali” assegnati alla coalizione non supera il 50%, ma si ferma al 43% del totale dei votanti. È solo grazie alle regole del Rosatellum che a quel 43% di voti ottenuti dalle varie liste va aggiunto il numero di seggi guadagnati in automatico dai candidati uninominali agganciati a quelle liste. In secondo luogo, in virtù dell’astensionismo che sfiora il 40% degli aventi diritto al voto, rispetto al quale non dobbiamo fare l’errore di pensare che i voti non espressi andrebbero distribuiti più o meno equamente tra tutte le liste presenti alle urne. Al contrario, l’astensione è per definizione un rifiuto a sostenere qualsiasi schieramento presente sulla scheda e, tecnicamente, un non-voto rivolto a tutti gli schieramenti. È quindi paradossale parlare di un astensionista che, se avesse votato, avrebbe scelto questo o quel partito: in quel caso non staremmo parlando di un astensionista.
Inoltre, tutte le analisi post-voto sull’astensionismo ci indicano che la composizione socio-demografica di questo grande contenitore di voti non espressi non è casuale. Guardando ai numeri, un’accurata analisi pubblicata dall’Istituto di ricerca Ixè ci mostra che tra gli elettori che vivono in condizioni economiche “appena adeguate” il 40.5% non ha espresso alcun voto, mentre tra coloro che si trovano in condizioni classificate come pienamente “inadeguate” la percentuale dei non votanti sale al 50.3%. Come possiamo intuire, non si sta parlando di una distribuzione casuale di gente variamente disinteressata, ma piuttosto di un preciso sottogruppo socio-economico che non percepisce alcuna rappresentanza parlamentare o che si trova ad essere talmente escluso dalla vita civile e politica da non ritenersi nemmeno nelle condizioni di poter incidere con il proprio voto.
Guardando al Movimento 5 Stelle come la forza politica che più si prometteva di rappresentare queste periferie socio-economiche, sono in particolare due i punti sui quali la leadership di Conte si è dimostrata piuttosto debole. Questo al netto della discreta rimonta elettorale, ma anche alla luce del crollo di consensi rispetto alle precedenti elezioni politiche. In primis, è emersa chiaramente la scelta di non schierarsi contro le sanzioni economiche alla Russia, percepite come il fattore scatenante di questo aggravarsi della crisi energetica che sta di fatto strangolando i ceti medio-bassi. In secondo luogo, la totale assenza di un programma di redistribuzione della ricchezza, da una proposta di patrimoniale sulle maxi-ricchezze a una seria tassazione degli extra-profitti frutto di speculazione, fino a una battaglia europea per rivedere al rialzo la tassazione dei colossi digitali e dell’e-commerce.
Per questo, pur avendo riconosciuto nel programma di Conte diversi spunti interessanti di stampo laburista, ho scelto (non senza amarezza) di schierarmi orgogliosamente con chi, astenendosi, segnala da tempo un forte vuoto di rappresentanza tra le principali forze politiche che si candidano di volta in volta a guidare il Paese. Nonostante questo, penso comunque che la parabola politica del Movimento possa giocare da spartiacque e rappresentare un primo modello per quello che potrà e dovrà inevitabilmente accadere: l’aggregazione di forze e personalità extraparlamentari in un’unica proposta credibile in grado di attingere all’enorme serbatoio di astensionisti non garantiti e portare a compimento quella “rivoluzione gentile” solo iniziata e attesa da troppo tempo.
Aggiornato da redazioneweb l’11/10/22