Il 1992 era l'anno in cui il produttore cinematografico tentò di scalare la Serie A ai danni dei rossoneri: la sfida del 4 ottobre con il Diavolo segnò il contrappasso, un 7-3 che segnò il resto della stagione, conclusa con l'incredibile retrocessione dei toscani
Il palco è stato tirato su durante la notte, proprio a due passi dalla basilica di Santa Croce. È una scelta scenografica che vuole creare una sindrome di Stendhal tutta nuova. Perché deve persuadere lo spettatore circa l’opulenza della nuova Fiorentina. In un primo momento l’idea sembra funzionare. Nel pomeriggio del 18 luglio del 1992, nonostante un caldo che toglie il respiro, ventimila tifosi riempiono la piazza. I corpi fasciati dalle maglie viola, le sciarpe tese al cielo, le bocche che scandiscono un coro dopo l’altro. Qualcuno ha parlato di una presentazione della squadra “alla Berlusconi”, ma Vittorio Cecchi Gori, che non ama essere utilizzato come comparativo di minoranza, preferisce definirla “all’americana”. È una sottigliezza che non interessa a nessuno. Perché gli ultimi anni sono stati piuttosto tetri per la Fiorentina.
Prima la finale di Coppa Uefa persa contro la Juventus nel 1990, poi la cessione di Roberto Baggio ai bianconeri all’alba di Italia ’90, infine due stagioni strazianti trascorse a evitare faticosamente la retrocessione. Ora però le cose andranno in maniera diversa. I giocatori sfilano sul palco uno dopo l’altro, accolti dagli applausi dei tifosi. Poi Vittorio Cecchi Gori prende la parola e assicura che la squadra andrà come minino in Coppa Uefa. Non ha neanche finito la frase che piazza Santa Croce viene scossa da un boato. È un quel momento che i sogni di gloria del presidente della Fiorentina si trasformano in allucinazione collettiva. A Cecchi Gori non basta vincere, lui vuole diventare il nuovo Berlusconi, vuole dimostrare che con i suoi film può costruire una squadra ancora più competitiva di quella di Sua Emittenza. È un concetto rudimentale, un progetto che ha a che fare con il concetto di hybris e che proprio per questo contiene già al suo interno il seme della sua autodistruzione.
In estate il Milan campione d’Italia ha portato a termine una campagna acquisti non esattamente sobria. Fabio Capello ha avuto in regalo De Napoli, Eranio, Savicevic, Papin e Lentini. È la prima volta che il moderno concetto di accumulo di campioni inizia a fare capolino nel calcio. Berlusconi, si dice, compra non solo per rafforzare la sua squadra, ma soprattutto per indebolire le avversarie. Anche Cecchi Gori ha speso molto. Sono arrivati Di Mauro, Carnasciali, Luppi e Baiano. Ma soprattutto Stefan Effenberg, uno al quale veste a pennello quella frase che Alex Ferguson cucì addosso a Dennis Wise: “Potrebbe scatenare una rissa in una stanza vuota”, e Brian Laudrup, stella della Danimarca che a fine giugno è diventata campione d’Europa. Mario Cecchi Gori (il presidente, il figlio Vittorio è il vice) è talmente sicuro del valore della sua squadra che si fa scappare: “Se non arriviamo in Europa mi sparo”. La rivalità con il Diavolo è ormai un argomento di conversazione. Tanto che alla fine della presentazione della squadra Franco Zeffirelli si dice preoccupato che Berlusconi possa addirittura corrompere le giacchette nere: “Un consiglio alle squadre competitive che vogliono contrastare Juventus e Milan – afferma – Devono stare attente a due cose: alla stampa e agli arbitri. Chi spende centinaia di miliardi per costruire una squadra, non ci mette niente a pagare 200 milioni ad un arbitro”.
L’avvio del campionato è contraddittorio. La Fiorentina gioca bene, segna molto, ma non vince quasi mai. Nelle prime quattro partite ha già raccolto tre pareggi (contro Genoa, Lazio e Inter), mentre l’unico successo è arrivato contro un Ancona ectoplasmico e derelitto, che la squadra di Radice ha accartocciato con un pesantissimo 7-1. Tanto basta a dilatare l’entusiasmo di una città intera. I tifosi e i vertici del club si identificano alla perfezione. Lo scudetto diventa un obiettivo, anche se nessuno ha il coraggio di parlarne apertamente. Il 4 ottobre del 1992 si gioca la sfida che Cecchi Gori aspetta da quando è diventato presidente del club. Il Milan bussa a Firenze per una gara che contiene un sottotesto piuttosto scontato: chi vince diventa la favorita per il titolo. Il giorno prima della partita Berlusconi telefona a Mario Cecchi Gori. Saluta e si complimenta. Poi aggiunge: “Mario, ma non ti sembra di aver caricato troppo la tua squadra?”. Dall’altra parte della cornetta il presidente della Fiorentina si scioglie in un sorriso. “Caro Silvio, mi sono difeso: in fondo il tuo Milan è la squadra più forte, è il massimo obiettivo”. Quando riagganciano, però, i Cecchi Gori cambiano registro. E anche parecchio.
“Berlusconi l’ho sentito un po’ preoccupato. Sa che oggi possiamo lottare alla pari. Loro hanno un parco giocatori più vasto, ma noi siamo la squadra che gioca il calcio più bello e divertente” dice Mario. “Oggi siamo noi il nuovo Milan” aggiunge tronfio Vittorio, che poi dice: “Pur di batterlo sarei disposto a digiunare per quindici giorni. Oddio, forse sarebbe meglio che lo facesse mio padre…”. È uno scherzo che non piace troppo al padre, che interviene stizzito: “Fossi matto. Io non voglio rinunciare a niente, ho già pagato abbastanza fino a oggi”. Il campo dà ragione ai viola. Ma solo per un quarto d’ora. Baiano si avventa su un rimpallo e spedisce in fondo al sacco il pallone che vale il vantaggio viola. È la rete che è la premessa all’affermazione di una superiorità assoluta. Quella del Milan. Prima del riposo il Diavolo segna quattro volte. Con Massaro, con Lentini, con Gullit e poi di nuovo con Massaro. La ripresa è un inseguimento continuo che sfocia nello psicodramma: i gigliati segnano con Effenberg e Di Mauro, il Milan con Gullit e Van Basten (due volte). Finisce 3-7 per i rossoneri. Il Diavolo è ancora il padrone del campionato, Sua Emittenza è ancora lo stregone capace di trasformare i soldi in successi sportivi. A fine partita i Cecchi Gori sono distrutti. Quella disfatta è un marchio a fuoco, una ferita che non riesce a rimarginarsi. Il 3 gennaio, dopo una sconfitta casalinga contro l’Atalanta, il club decide di esonerare l’allenatore Gigi Radice. Anche se la Fiorentina è ancora al sesto posto. Anche se qualsiasi altra soluzione assomiglia a un salto nel buio.
La panchina viene affidata ad Aldo Agroppi, uno che i tifosi invocavano a gran voce già da un anno. Il risultato è drammatico. La Fiorentina raccoglie 3 vittorie, 9 pareggi e 8 sconfitte. E scivola fino all’ultimo posto in classifica. Cecchi Gori cambia ancora. Fuori Agroppi dentro l’accoppiata Chirurgi–Antognoni. L’ultima giornata assume presto contorni cupi. La Fiorentina deve battere il Foggia e sperare che la Roma batta l’Udinese. Prima della partita i Cecchi Gori scrivono una lettera alla città. Comunque vada a finire, si legge, scusateci. Vittorio è più drammatico: “In questi giorni mi sento come un cadavere che viene ripetutamente colpito al cuore”. La missione però solo a metà. La Viola travolge i satanelli pugliesi con un rotondo 6-1. Ma i friulani pareggiano contro i capitolini. La Fiorentina è in Serie B. Cioran scrive che “non c’è opera che non si ritorca contro il suo autore”. Così il sogno di rovesciare il dominio di Berlusconi ha portato all’annientamento sportivo di una città intera. Mario Cecchi Gori non avrà più occasioni per sconfiggere Silvio. Il 5 novembre del 1993 il produttore muore improvvisamente. Il suo cuore smette di battere mentre lui è sul suo tavolo di lavoro. Il Cavaliere, suo socio nella Penta Film e in Tele+, lo ricorda con un una lunga lettera: “Mario Cecchi Gori non è stato per me soltanto un imprenditore, un produttore, un concorrente, un socio, ma è stato un amico e, sotto vari aspetti, un esempio”. E ancora: “Negli ultimi tempi anche la comune passione calcistica, sia pur per colori diversi, ci aveva portato a frequentarci e talora a confrontarci, ma con rispetto, anche nella competizione, e sempre con bonarietà”. È un momento drammatico che non spegne una rivalità. Perché da quel momento in poi toccherà a Vittorio contrastare il regno sportivo di Silvio. Ma questa, forse, è un’altra storia.