Il documento rivede al ribasso il deficit/pil sia per quest'anno sia per il prossimo, lasciando in teoria un po' di spazio fiscale per rifinanziare le misure di contrasto ai rincari energetici. Ma la strada resta strettissima. Le valutazioni di Leonzio Rizzo, ordinario di Scienza delle Finanze all'Università di Ferrara, e Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche
Lo scenario di base, costruito ipotizzando che le importazioni di gas russo vadano avanti anche se in quantità ridotte, allo stato attuale appare già superato. Con l’azzeramento dei flussi che si è materializzato nel fine settimana, l’Italia è precipitata in quello “di rischio“. In cui nel 2023 la previsione di crescita del pil, già ridotta da +2,4 a +0,6%, scende ulteriormente a +0,1%. E’ solo uno dei tanti elementi di incertezza che caratterizzano la Nota di aggiornamento al Def approvata dal governo Draghi solo per la parte tendenziale (cioè a politiche invariate), visto che quella programmatica spetta al prossimo esecutivo. Il documento, pubblicato venerdì scorso, indica che anche nel quarto trimestre l’economia italiana si contrarrà, dopo la variazione “leggermente negativa” del terzo: il Paese entrerà dunque in recessione. Per l’anno prossimo però apre spiragli: rivede al ribasso il deficit/pil, lasciando in teoria un po’ di spazio fiscale per rifinanziare le misure di contrasto ai rincari energetici. La strada resta strettissima e i rischi innumerevoli. Non a caso l’Ufficio parlamentare di bilancio, nel dare via libera alle stime, ha sottolineato che “il quadro internazionale appare instabile e fragile e le prospettive potrebbero cambiare significativamente, anche in un arco temporale breve”.
A contenere il rapporto deficit/pil ha contribuito l’inflazione, bestia nera per i consumatori ma aiuto provvidenziale per un Paese indebitato: da un lato l’aumento dei prezzi gonfia il pil nominale che è il denominatore del rapporto, dall’altro aumenta le entrate indirette dello Stato, leggi il gettito Iva. “E’ per questo meccanismo che il deficit/pil 2022 nella Nadef cala al 5,1% dal 5,6% del Def e quello del 2023 è visto al 3,4% contro il 3,9% previsto in precedenza”, spiega Leonzio Rizzo, ordinario di Scienza delle Finanze all’Università di Ferrara e redattore de lavoce.info. “Di conseguenza sulla carta si “liberano” 10 miliardi quest’anno e 10 il prossimo. Ma non sono soldi in più, sono solo la conseguenza del fatto che stiamo pagando più tasse“. Il problema è che l’inflazione impatta anche sui consumi intermedi e sui salari dei dipendenti pubblici, quando il loro contratto viene rinnovato. “Tutti gli enti pubblici, per esempio, avranno bollette più alte. E i contratti andranno almeno in parte adeguati. Quindi lo spazio fiscale che vediamo ora in seguito potrebbe essere riassorbito da queste maggiori spese”.
Sul fronte delle entrate dello Stato, è tutto da vedere se anche l’anno prossimo resteranno sugli alti livelli registrati finora, che hanno consentito al governo Draghi di finanziare una sessantina di miliardi di interventi contro l’aumento dei costi energetici senza ricorrere a nuovi scostamenti. “I numeri della Nadef mostrano una crescita sostenuta delle entrate anche l’anno prossimo, spiegata dal fatto che il quadro tendenziale non incorpora gli sgravi fiscali concessi nel 2022, e in esaurimento a fine anno”, scrive l’istituto indipendente Ref Ricerche – che fa parte del panel che affianca l’Upb nella validazione delle stime macroeconomiche – nella sua analisi sulla Nota. “Naturalmente è probabile che in realtà queste misure verranno reiterate anche nel 2023, per cui la crescita delle entrate l’anno prossimo risulterà inferiore a quella dello scenario tendenziale”. La probabilità aumenta nel caso in cui la crescita del pil si riveli vicina allo zero, come previsto nello scenario “di rischio”. Ancora una volta, la scommessa dipende dalla direzione che prenderanno le quotazioni del gas.
A conti fatti, ex post l’eredità lasciata da Draghi alla premier in pectore Giorgia Meloni rischia di rivelarsi meno ricca di quanto sembri. “Non ricordo un altro governo che abbia ricevuto dal precedente un quadro di conti così virtuoso”, commenta Fedele De Novellis, partner di Ref. “Ma c’è da dire che nel 2022 gli investimenti sono stati decisamente inferiori al previsto a causa della difficoltà di “mettere a terra” i soldi del Pnrr. E in parte il miglioramento del saldo di quest’anno è attribuibile proprio a questo: non proprio un successo. Dopo aver toccato un punto minimo, meno di 40 miliardi l’anno, gli investimenti sono risaliti a 50 ma l’impressione è che la macchina pubblica non sia in grado di fare più di così. I 65 previsti per l’anno prossimo e gli oltre 70 messi nero su bianco per il 2024 e 2025 appaiono più che altro una speranza: il timore è che si dovrà continuare a traslarli in avanti, rinviarli”. Il che significa non solo rendere sempre più irrealistico il cronoprogramma, ma anche rinunciare a una parte della spinta alla crescita che dovrebbe arrivare proprio dalla messa in circolo di quel denaro.
Un esito, questo, che del resto era largamente atteso da chi fin dal 2020 aveva avvertito del rischio che la pubblica amministrazione italiana, reduce da un decennio di blocco del turnover e “rafforzata” solo con assunzioni a termine a valle di selezioni di dubbia efficacia, non fosse in grado di gestire la grande mole di bandi di gara necessari per distribuire i fondi. A queste difficoltà del tutto prevedibili si è aggiunto il problema dei rincari delle materie prime, che rendono proibitivo per le aziende cercare di aggiudicarsi gli appalti. Sarà ora Meloni a dover negoziare con Bruxelles una eventuale revisione del Piano.