di Alessandro Gariglio*
Di recente, dopo alcuni anni di quiete, le questure hanno ricominciato ad applicare, a chi manifesta per la tutela del Pianeta e dell’ambiente, misure limitative di diritti costituzionalmente garantiti, quali quelli di soggiorno e di libera circolazione sul territorio.
Di esempi recenti se ne possono menzionare diversi. Da quanto successo solo poche settimane fa dopo una protesta pacifica di Extinction Rebellion a Torino (solo alcuni dei provvedimenti sono stati poi revocati dopo pochi giorni), fino ad arrivare ai fogli di via che sono stati comminati, in due diverse occasioni, ad attiviste e attivisti di Greenpeace.
Rispettivamente dopo una protesta pacifica durante il Festival di Sanremo contro il greenwashing di Eni e dopo la recente manifestazione nonviolenta alla Fiera di Milano, durante Gastech 2022.
Tali misure, che risalgono addirittura a una legge del 1956, sono state oggetto di un lungo dibattito che ha visto il suo apice in alcune pronunce della Corte costituzionale che ne hanno chiarito gli aspetti costitutivi tra cui:
– il netto rifiuto del sospetto come presupposto per la loro applicazione;
– la necessaria stringente motivazione che deve emergere da “una oggettiva valutazione di fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione“;
– la prova della pericolosità sociale.
Cioè per potersi applicare queste misure devono essere valutati in concreto:
1. il carattere oggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni;
2. l’attualità della pericolosità;
3. la necessità di un esame globale della personalità del soggetto quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita.
Che attiviste e attivisti che si battono per la difesa del clima e del Pianeta, in generale appartenenti a gruppi che fanno anche del pacifismo la loro luce guida, possano essere definiti pericolosi socialmente perché manifestano un dissenso o avanzano delle richieste, è oggettivamente inaccettabile. Ancor meno accettabile è che, con questo stratagemma, la Pubblica Autorità limiti dei diritti costituzionalmente garantiti.
Alla luce dei fatti, è lecito dunque dire che l’uso abnorme che viene fatto di tali misure possa essere ritenuto un bavaglio amministrativo alla libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, come se il dissenso fosse in sé un fatto illecito e pericoloso. Mentre la storia ci insegna che il pericolo è – ed è sempre stata – la repressione del dissenso operato con la forza, anche delle leggi. E proprio per questo la Costituzione è stata pensata, costruita e creata: per tutelare le libertà di tutti anche attraverso la non discriminazione e non limitazione delle minoranze.
Non dimentichiamoci infine che queste misure non prevedono le stesse garanzie di procedura e di difesa delle misure cautelari penali. La loro forza repressiva è quindi, se possibile, ancora maggiore perché vi è solamente una tutela amministrativa per il soggetto che le subisce. Dunque, la loro applicazione serrata e continua è di fatto un deterrente alla libertà dei cittadini che si vedranno costretti magari a rinunciare a protestare per non incorrere in tali provvedimenti.
Non si può non far notare, infatti, che se segue l’iter ordinario e non vi è un provvedimento cautelare, il procedimento davanti al giudice amministrativo richiede anni prima di arrivare a una decisione. Anni nei quali il provvedimento limitativo avrà già svolto il suo effetto, con la conseguente irrilevanza della decisione giudiziale, ma con la sofferenza per i cittadini di una limitazione dei loro diritti. Si tratta, pertanto, di misure che, se utilizzate in maniera massiva, diventano un modo nemmeno troppo velato da parte dell’autorità, che è diretta espressione del governo sul territorio, di incidere sulla libertà delle persone e di vincolarne il pensiero.
*avvocato