Delitti mafiosi e paramafiosi in alcuni casi, delinquenza spicciola e vendette in altri. Così funziona nel Foggiano, il ventre molle d'Italia: le armi girano e si uccide con facilità in una terra dove le mafie, ipotizza la Dia, potrebbero reagire ad arresti e condanne con un processo federativo in stile 'ndrangheta. E dopo l'ultima vendetta parla solo il vescovo: "Fermatevi, l'odio non dà pace"
L’anno si era aperto a suon di bombe, come al solito: nove attentati in meno di due settimane. Una specie di mementum alla città. Saracinesche saltate e finestre divelte, i fuochi dopo Capodanno per far sentire a imprenditori e commercianti di Foggia che la solfa sarebbe stata sempre la stessa. Una “prova muscolare”, la chiamano gli investigatori della Direzione distrettuale antimafia, per rivendicare il controllo del territorio e spiegare a tutti che gli arresti e le condanne non hanno intaccato il potere criminale delle batterie egemoni dentro la quarta mafia. Poi sono arrivati gli omicidi. Uno, due, tre fino a dodici in nove mesi. Mafiosi e paramafiosi in alcuni casi, delinquenza comune e vendette in altri. Perché funziona così nel Foggiano, il ventre molle d’Italia diventato una provincia a mano armata. Sparano i clan, spara la criminalità comune dove i primi attingono, sparano i creditori anche per pochi spiccioli, sparano i giovani per gelosia e vendetta. Le armi girano e si uccide con facilità. E quando le pistole non ci sono, bastano i coltelli. Francesco Pio D’Augelli aveva 17 anni e il 9 luglio è caduto a terra dopo un fendente mortale all’addome mentre rientrava a casa, a San Severo. A sferrarlo un quindicenne, poco più di un bambino. Un diverbio per una ragazza, poi l’omicidio. “Si alzava alle 5 del mattino per andare a lavorare con il padre carpentiere. San Severo è diventata pericolosa. Non si può più vivere”, era stato il grido del nonno.
D’Augelli è stato la vittima numero sei nella fredda conta di chi è rimasto senza vita sull’asfalto dall’inizio del 2022. A marzo, il primo: si chiamava Roberto Russo. I killer lo hanno affiancato in zona San Ciro, a Foggia, mentre era alla guida della sua auto e hanno aperto il fuoco. Cinquantadue anni, Russo era stato coinvolto vent’anni fa in un blitz antidroga tra il capoluogo e Cerignola. Due mesi dopo, il 18 maggio, è toccato ad Alessandro Scrocco, trucidato mentre rientrava in carcere. Stava scontando la sua pena per aver ucciso un 29enne nel 2010 e si trovava in regime di semilibertà. Coperti dal buio della sera, i sicari sono entrati in azione all’ingresso della casa circondariale. Il luogo e le modalità fotografano il senso d’impunità: l’attesa, quattro colpi di fucile, il corpo di Scrocco esanime e la fuga. Tutto immortalato dalle telecamere di sicurezza. Altri due mesi ed ecco il terzo omicidio a Foggia: l’11 luglio in viale Candelaro è Alessandro Scopece, 37enne con precedenti per droga, a cadere sotto i colpi dei killer. Ed è proprio nell’ambiente dei traffici di droga – ipotizzano gli inquirenti, come anticipato dal sito Immediato.net – che andrebbe ricercata la chiave dei tre delitti consumati tra marzo e luglio in città. Nei paesi della provincia invece si è sparato senza soluzione di continuità in questo anno di sangue. Un colpo alla nuca, il 12 marzo, per l’agricoltore Giuseppe Ciociola, ritrovato cadavere nelle campagne di Zapponeta. A fine luglio altri due agricoltori, Gerardo e Pasquale Cirillo, sono stati ammazzati nei campi a colpi di pistola e poi chiusi in sacchi di plastica. Gli investigatori hanno potuto ascoltare in diretta il loro omicidio: l’uomo arrestato con l’accusa di averli giustiziati, Giuseppe Rendina, un 45enne di Trinitapoli, era intercettato poiché sospettato di aver ucciso Ciociola. “Giuseppe, non dico niente a nessuno”, ha supplicato uno dei due Cirillo sperando di scamparla. Dietro la furia del presunto killer, un debito di 13mila euro.
A San Severo, Francesco Pio D’Augelli non è stato l’unica vittima e il suo assassino non è stato l’unico minorenne ad ammazzare. Ad aprile un 17enne, figlio di un narcotrafficante ucciso nel 2021 in una guerra per gli stupefacenti, ha deciso di farsi giustizia da sé. Circolava voce che Salvatore Lombardi, un 29enne pregiudicato, avesse intenzione di farlo fuori non appena fosse diventato maggiorenne. Così ha deciso di agire prima: cinque colpi di pistola al volto e alla testa dopo avergli dato appuntamento in un bar. Trentacinque chilometri più a nord, Marina di Lesina, 13 agosto, pieno giorno: Maurizio Cologno – noto alle forze dell’ordine per reati contro il patrimonio, estorsione, porto abusivo di armi e reati in materia di sostanze stupefacenti – viene raggiunto da due sicari a bordo di uno scooter mentre si trova nel parcheggio di un lido: esplodono quattro colpi di pistola, il sangue di Cologno si impasta con la sabbia mentre i bagnanti scappano terrorizzati. Il 9 settembre, in una masseria tra Manfredonia e Zapponeta, viene accoltellato un bracciante agricolo di origini romene, Meluselu Ion. Il suo connazionale Viasu Mihai, secondo i carabinieri, lo ha ammazzato durante un litigio per futili motivi. Una storia scollegata, di diversa marginalità che racconta l’altra faccia del granaio d’Italia, dove le mafie foggiane stanno diventando sempre più imprenditoriali dimostrando “dinamismo” nonostante il momento difficoltà legato alle ripetute operazioni e i processi che hanno “indebolito” gli organici.
La situazione rischia però di ribaltarsi, come ipotizza l’ultima relazione della Dia, non escludendo che si possa arrivare a un “processo di aggregazione” con la “creazione di un organismo comune di vertice”. Una cupola. Le mafie foggiane, infatti, ricordano gli investigatori, stanno “riproducendo i canoni d’impostazione strutturale della ‘ndrangheta” e sono “capaci di stabilire” modelli federali. Intanto resta da controllare il territorio, ricordare a tutti chi può fare e disfare. E lì il linguaggio è sempre lo stesso. Un messaggio chiaro in questo senso, secondo gli inquirenti, è l’omicidio di Gerardo Tammaro, trucidato lunedì scorso a Orta Nova. Incensurato, mai un’ombra nella sua vita, ma la “colpa” di essere il papà di Mirko, il 26enne che il 3 settembre ha ucciso Andrea Gaeta, figlio di Francesco “Spaccapalline”, il boss del paese alle porte di Foggia. I due ventenni avevano litigato per una donna e Tammaro ha inseguito il rampollo della famiglia, egemone ad Orta Nova e legata alla batteria foggiana dei Moretti, scaricandogli addosso cinque colpi di pistola. Così l’onta sarebbe stata lavata con altro sangue, sospettano i carabinieri: stesso numero di proiettili ed esattamente un mese dopo, perché i simboli contano quando bisogna infliggere identico dolore. Potrebbe non essere un caso, stando a chi indaga, che i killer abbiano agito in pieno giorno e in una zona frequentata. Tutto pianificato per ricordare chi comanda. “Vediamo accendersi la miccia pericolosa di un’altra guerra che potrebbe scoppiare in mezzo a noi – è stato il monito di don Fabio Ciollaro, vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano – La miccia va spenta prontamente. L’odio distrugge e non dà pace né ai vivi né ai morti”. La sua voce si è levata in un silenzio durato oltre ventiquattr’ore.
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