Quando è che un governo può dirsi tecnico? Solo quando il presidente del consiglio non è un leader politico, come nel caso di Mario Draghi o Mario Monti? O anche quando i dicasteri chiave sono affidati a personaggi che non provengono dai partiti? Sull’annoso dilemma s’interrogano i colonnelli del centrodestra, impegnati in questi giorni nelle delicate trattative propedeutiche alla nascita del primo governo guidato da Giorgia Meloni. La questione non è di secondaria importanza, visto che la stessa leader di Fratelli d’Italia in passato si è spesso esposta in modo molto netto sui ministri che non venivano dai partiti. ”Non saranno i tecnici a salvare il mondo, ma la politica. Solo i politici, a differenza dei tecnici, sono portatori di una visione del mondo“, sosteneva per esempio l’ex ministra della Gioventù, nel febbraio del 2012, in pieno governo Monti.
Una posizione tenuta pure dopo. Per esempio quando Giorgio Napolitano nominò il comitato di dieci saggi per le riforme, e la leader di Fdi – partito che all’epoca aveva appena fondato – attaccò frontalmente l’operazione: “Stiamo ripercorrendo gli stessi errori che hanno consentito la nascita del governo Monti. L’idea che pochi tecnici non eletti da nessuno o pochi politici con idee contrapposte, possano offrire soluzioni all’Italia senza ricorrere a dei compromessi al ribasso su ogni tematica è un’utopia che abbiamo già pagato a caro prezzo nel corso dell’ultimo anno”. Da notare come tra i saggi di Napoletano ci fosse pure il leghista Giancarlo Giorgetti, che ora potrebbe fare parte del nuovo governo Meloni. Un esecutivo, quest’ultimo, che al fianco dei politici potrebbe annoverare diversi tecnici nei dicasteri chiave: esattamente come avvenuto per i saggi di Napolitano ma pure per il governo Draghi. Secondo diversi retroscena, infatti, la stessa leader di Fdi vorrebbe almeno 8 ministri tecnici nella sua squadra di governo: in questo modo, però, diminuirebbero i posti disponibili per gli alleati di Lega e Forza Italia. Ed è per questo motivo che nei giorni scorsi il nodo dei tecnici aveva infiammato il centrodestra. Ecco spiegato perché Fabio Rampelli – fedelissimo dell’aspirante premier – si affanna a specificare come sia “presumibile che alcune caselle di governo possano essere affidate a tecnici, fermo restando che essendo il leader politico, il governo è politico“. D’altra parte Rampelli è lo stesso che dopo la rielezione di Sergio Mattarella spiegava sicuro: “Più è fragile la democrazia, piu’ cresce il divario tra cittadini e istituzioni, più i governi tecnici – esterni al consenso dei popoli – saranno una regole più che un’eccezione”.
Nonostante siano passati solo pochi mesi, i tempi in cui Meloni e i suoi sparavano contro i tecnici sembrano appartenere al trapassato. “I tecnici li abbiamo visti e noi non siamo in grado di sostenerli”, diceva la leader di Fdi nell’aprile del 2018, in piena stasi istituzionale dopo che dalle elezioni politiche non era uscita vincitrice nessuna maggioranza naturale. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata: oggi Meloni ambisce a diventare la prima donna alla guida di un governo della storia italiana. Un incarico che arriva in un momento delicatissimo dal punto di vista economico e sociale. Sarà per questo motivo che già in campagna elettorale la leader di Fdi ha modificato in modo sostanzioso tono e contenuto delle sue dichiarazioni. A cominciare dal rapporto col governo Draghi, al quale ha fatto opposizione ma che ora potrebbe lasciarle in eredità qualche ministro o uomo di fiducia.
All’Economia, per esempio, si parla da giorni di un pressing su Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, vicinissimo all’attuale presidente del consiglio. In caso di forfait di Panetta, tra l’altro, qualcuno – come il sottosegretario leghista Federico Freni – vorrebbe la riconferma in via XX settembre di Daniele Franco. In alternativa c’è pronto Domenico Siniscalco, il banchiere di Morgan Stanley che fu ministro con Silvio Berlusconi. Ma non solo. Per gli Esteri si fanno i nomi di Elisabetta Belloni, già segretaria generale della Farnesina e ora al vertice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ma pure quello dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo. Alla Salute sono in ballo i nomi del presidente della Croce rossa, Francesco Rocca, e quello di un medico, il professor Rocco Bellantone, direttore di Chirurgia endocrina e dell’obesità del Gemelli. Persino Roberto Cingolani, che in teoria fu nominato ministro di Draghi col via libera di Beppe Grillo, potrebbe rimanere al governo con Meloni: ieri i due si sono incontrati a Montecitorio, ma la leader di Fdi ha negato ogni accusa di inciucio, derubricando tutto a una “transizione ordinata”.
Di sicuro c’è solo che a dare retta ai retroscena dell’esecutivo Meloni faranno parte diversi esponenti che non sono stati eletti da nessuno, per citare la definizione della leader di Fdi nel 2013. Gente non “voluta dagli italiani”, per usare le dichiarazioni più recenti di Meloni. Solo nel giugno scorso, infatti, la leader di Fdi replicava su facebook a Goldman Sachs – che aveva lanciato un’allerta sulle elezioni italiane e per cui lavorava uno dei papabili ministri come Siniscalco- spiegando che i conti pubblici italiani sono stati sconquassati “dal 2011 ad oggi” e “tutti i governi tecnici (perennemente sostenuti dalla sinistra che perde le elezioni), o nati da inciuci di Palazzo, hanno palesemente fallito. La realtà dei fatti è soltanto una: la finanza speculativa ha paura che un governo forte, voluto dagli italiani per difendere esclusivamente i loro interessi, ponga fine al saccheggio”. Dichiarazioni molto diverse da quelle rilasciate dopo la vittoria delle elezioni. Una situazione che Pierluigi Bersani, con una delle sue battute, sintetizza così: “Meloni? Sta attraversando a nuoto il mare che c’è tra il dire e il fare“.