Forse pochi hanno notato come i media stiano – comprensibilmente – demonizzando la mossa oscena di Putin di annessione alla Russia di regioni ucraine, ma lascino in ombra l’amputazione per sabotaggio del collegamento tra la Russia e l’Europa dei due metanodotti del Baltico. Dal punto di vista “politico e militare”, le implicazioni sembrerebbero non essere confrontabili: ma, a ben guardare, stanno purtroppo in relazione. Di fatto, questi due fattori – da una parte l’espansione territoriale della Russia verso il Mar Nero, dall’altra il blocco dei canali energetici da oriente verso l’Europa – convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta e la guerra fa un balzo in avanti verso il baratro, come confermano i due missili lanciati sul parcheggio di un convoglio umanitario a Vinnytsia, e la minaccia dell’”atomica strategica” dietro l’angolo. Dal punto di vista “fisico”, sabotare un tubo di un metro di diametro caricato di metano e immerso con tutte le precauzioni in mare per 1200 km si risolve in un’esplosione di qualche centinaio di chilogrammi di tritolo applicata all’infrastruttura da apparati segreti ed invisibili, mentre la modifica dei confini nel Donbass, pur rappresentata dalla modifica di un tratto di matita sulla carta geografica cui viene associato un colore diverso, ha comportato massacri feroci e combattimenti cruenti sul terreno.

Ma perché tutta la stampa occidentale non vuole mettere in rapporto l’isolamento dei canali commerciali con la Russia e l’inverno terribile che ci aspetta, con la recrudescenza della guerra “pazza” – come dice Francesco – se non perché, oltre che nella pretesa di Putin, prevale nella testa di Zelensky e della Nato lo stigma della vittoria a tutti i costi?

Distruggere i due gasdotti è – come l’annessione del Donbass – distruggere un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina: nel caso del metano in particolare, significa distruggere l’asse dell’energia ancora sopravvissuto fra Berlino (Roma?) e Mosca. Intanto i prezzi del gas sul Ttf olandese sono schizzati nuovamente in alto, fino a 208 euro/MWh a seguito del tentativo di destabilizzare ulteriormente l’approvvigionamento energetico dell’Ue. Va detto che finora la Russia, nonostante il calo delle importazioni del suo gas da parte dei Paesi Ue negli ultimi mesi, ha tratto ingentissimi profitti grazie alle elevate quotazioni del combustibile sui mercati, le quali hanno più che compensato la riduzione dei volumi venduti, e che Kiev ha anche sfruttato la situazione per chiedere maggiore sostegno militare contro gli aggressori, mentre il netto incremento dei volumi di Gnl verso la Ue dai mercati internazionali (Usa, Qatar, Azerbaijan e Norvegia in primis) hanno rimpinguato le casse degli apparati militari e fossili di tutti i cobelligeranti. Questo è il bilancio economico perverso della guerra in corso. Peraltro, gli “incidenti” sui gasdotti russi sono avvenuti in concomitanza con il lancio del gasdotto Baltic Pipe: inaugurato ufficialmente martedì 27 settembre a Goleniów, in Polonia, trasporterà fino a 10 miliardi di metri cubi di gas.

È solo una coincidenza? Quel che è certo è che affidarsi al gas è una scelta sempre più rischiosa, a prescindere da chi lo fornisce e come.

Mentre si discute la possibilità di introdurre un tetto Ue ai prezzi del gas – ipotesi che finora ha diviso gli Stati membri – la Commissione europea dovrebbe aumentare iniziative e investimenti per ridurre la domanda di energia e sviluppare le fonti rinnovabili, le uniche in grado di assicurare una maggiore sicurezza e indipendenza energetica, ora che il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas è stato spezzato e galleggia in alto mare.

Prima di passare a inquietanti considerazioni ecologiche, vorrei ricordare come ormai la politica energetica tedesca non veniva più decisa a Berlino ma a Washington: uscita di scena Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero e, con la distruzione dei due gasdotti, è stata preclusa ulteriormente la via del negoziato ed è stata consegnata l’Europa intera alla dipendenza prolungata dalle importazioni di gas soprattutto statunitense, con conseguenze incalcolabili sul tenore di vita della popolazione.

E poi c’è l’aspetto ambientale, anch’esso oscurato. Quello avvenuto a lato della Danimarca è il peggior disastro nel campo dell’emissione di metano. Greenpeace scrive che, secondo calcoli preliminari, il potenziale impatto climatico della fuoriuscita di metano dai Nord Stream potrebbe essere di 30 milioni di tonnellate di CO2eq nell’arco di 20 anni: nel prossimo ventennio, un arco di tempo cruciale per l’azione sul clima, ogni tonnellata di metano emessa avrà impatto pari a 84 tonnellate di CO2eq (pari alle emissioni di gas serra di due milioni di auto in un anno.

Intanto nella UE si discute del price cap del metano. Purtroppo, è sul mercato che la Ue stessa ha chiesto di spostare le modalità e i prezzi di acquisto: ma, essendoci tre mercati regionali d’acquisto, quello russo, ormai tagliato fuori, avrebbe mantenuto prezzi più contenuti. Intanto, si va allargando come conseguenza anche il prezzo dello scambio delle emissioni, con conseguente rincaro del metano bruciato. La notizia data da Cingolani di avere a disposizione quantità di scorte nazionali vicine al 100% non è per nulla rassicurante: innanzitutto, sono state pagate 10 volte rispetto l’anno precedente, mentre – in quasi totale silenzio – la domanda nazionale di greggio russo e di carbone nel 2022 sono aumentate del 112% e del 18% rispettivamente. In definitiva, con un profitto evidente di Usa, Qatar e Norvegia, rallenta la transizione ecologica del Next Generation Ue.

Purtroppo tutti i fattori – economici, commerciali e industrali – si allineano sul risultato più pericoloso, e in un certo senso i fattori dell’espansione territoriale della Russia in Ucraina e del blocco dei canali energetici verso l’Europa convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta. Ogni settimana più pericoloso. E ogni settimana da tenere sotto la stessa allarmata, se non disperata, apprensione.

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