L’opera complessiva di Panahi è un meccanismo ad orologeria, un thriller pazzesco dal ritmo costante, insinuante e gradualmente insostenibile. Con un finale mozzafiato
Il coraggio e l’ostinazione del regista iraniano Jafar Panahi andrebbero, come del resto il suo cinema, insegnati a scuola. Gli orsi non esistono – dal 6 ottobre nelle sale italiane dopo il Premio Speciale all’ultima Venezia (si poteva dare di più…) – è un manifesto universale contro ogni cultura dittatoriale istituzionalizzata liberticida e oppressiva. L’Iran sì, teatro proprio in questi giorni di estese e tragiche proteste di emancipazione della donna, ma anche ogni angolo del pianeta in cui una qualunque intoccabile e inamovibile autorità ha costruito una gabbia sempre più stretta, implacabile, fatta di leggi, norme, e consuetudini indiscutibili.
Panahi è subito in scena come voce fuori campo dietro l’occhio di una cinecamera che riprende il lento e nascosto piano (sequenza) di fuga oltreconfine di una coppia iraniana di mezza età. Occhio registico che diventa corpo fisico inquadrato, con una carrellata magica all’indietro che sfonda lo schermo di un pc, da cui Panahi stesso sta dirigendo da una stanzetta sgarrupata in pietra il suo film sulla fuga. Una traiettoria da myse en abime che certifica più piani di osservazione di un reale che mescola solo finzione come fosse amara, dolorosa verità. Già, perché Panahi regista, protagonista de Gli orsi non esistono, è il Panahi reale condannato da quasi due lustri agli arresti domiciliari, allentati e allargati nel giro di alcuni anni delle autorità iraniane (oggi Panahi è in carcere e nulla si sa di cosa gli stia accadendo ndr): a sua volta in fuga da Teheran per “stare vicino alla sua troupe” che gira il film sulla fuga, ma lui stesso tentato dall’ipotesi drammatica di valicare il confine di notte che dista pochi chilometri.
L’opera complessiva di Panahi è un meccanismo ad orologeria, un thriller pazzesco dal ritmo costante, insinuante e gradualmente insostenibile. Con un finale mozzafiato che si appoggia, qui davvero solo i grandi del cinema, sull’effetto che provoca nello spettatore un suono d’ambiente (no spoiler, sia mai). Gli orsi non esistono vive oltretutto della impellente presenza dell’invisibile traducibile sia come cappa normativa che fa andare in bestia Panahi regista nel film, dell’illusione che fa saltare nervi e fiducia ai protagonisti che recitano il film di Panahi, dell’intangibile fosco occhieggiare dei mercanti di esseri umani che si nascondono guarda caso dove la natura sembra aver consentito di vivere, muoversi e pensare liberi da precetti morali stringenti. Infine, nel suo apparente pauperismo formale, Gli orsi non esistono è una franca elaborazione di come l’urgenza personale del raccontare si riesca a fondere con la pratica e la teoria generale del cinema. Un film di lotta diretta e attiva, un’opera sul moto individuale dell’andarsene, del disperdersi, del fuggire, che finisce per girarsi indietro, per restare e resistere. E qui la commozione è tanta. Distribuisce Academy Two.