“Compà, lì è casa nostra… meglio di tutti gli altri porti. Noi lì stiamo con chi gestisce tutto…E sono amici da 25 anni…Compà con gente apposto da lì non partono 500-1000 dovete parlare di 2mila in su”. Bartolo Bruzzaniti sta parlando di un porto del Sudamerica, dall’altra parte del mondo. Poche parole sono sufficienti per capire le tonnellate di cocaina che le cosche della provincia di Reggio Calabria riuscivano a far arrivare al porto di Gioia Tauro.
Bruzzaniti è tra le 36 persone arrestate (34 in carcere e 2 ai domiciliari) questa mattina dalla Guardia di finanza. I militari hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Giuseppe Lombardo e dei sostituti Domenico Cappelleri e Paola D’Ambrosio. Assieme a Bartolo Bruzzaniti, in manette sono finiti altri tre narcotrafficanti internazionali: suo fratello Antonio Bruzzaniti e i campani Bruno Carbone e Raffaele Imperiale. Quest’ultimo è ritenuto un soggetto di rilievo criminale assoluto ed è stato recentemente espulso da Dubai. L’organizzazione avrebbe assicurato la logistica del narcotraffico all’interno del porto di Gioia Tauro: una vera e propria società di servizi in grado di far esfiltrare le tonnellate di cocaina provenienti dal Sudamerica. Nel corso delle indagini, la Guardia di finanza ha sequestrato 4 tonnellate di polvere bianca per un valore complessivo di circa 800 milioni di euro.
In manette sono finiti pure 14 portuali e un dipendente dell’Agenzia delle Dogane, Pasquale Sergio. Nella qualità di “addetto allo scanner“, quest’ultimo avrebbe alterato “gli esiti della scansione radiogena” operata su un container che viaggiava a bordo della nave MSC Adelaide, proveniente da Santos, in Brasile, e sbarcato al porto di Gioia Tauro il 18 dicembre 2020. Dentro c’erano 300 chili di cocaina importati, stando alle indagini della Dda, dagli indagati Domenico Iannaci e Giuseppe Papalia, anche loro arrestati. La droga avrebbe fruttato all’organizzazione circa 8milioni e 700mila euro. In cambio del 3%, circa 261mila euro, il dipendente dell’Agenzia delle Dogane avrebbe oscurato “le anomalie riscontrate attestando la coerenza della scansione con il carico dichiarato”. Tra il 7 e il 20%, invece, era la percentuale incassata dalle varie squadre di portuali infedeli.
Stando alle indagini delle fiamme gialle, coordinate dalla Dda, infatti, c’erano tre distinti livelli di soggetti coinvolti: gli esponenti delle principali famiglie di ‘ndrangheta, i coordinatori delle squadre di operai e gli operatori portuali materialmente incaricati di estrarre la cocaina dal container “contaminato” e procedere all’esfiltrazione dello stesso verso luoghi sicuri. Dietro tutto, secondo la Dda, si nascondevano le cosche Piromalli, Crea, Alvaro, Gallico, Facchineri e Auddino-Ladini-Petullà.
Gli indagati sono complessivamente 37 e molti di loro, stando agli accertamenti della Guardia di finanza, erano soliti comunicare con telefoni cellulari criptati. Per gli investigatori, dopo l’indicazione ai referenti locali da parte dei fornitori sudamericani del nominativo della nave in arrivo e del contenitore con la sostanza stupefacente, l’importazione passava sotto la supervisione dei dipendenti portuali coinvolti, i quali si attivavano affinché il container “contaminato” venisse sbarcato al momento opportuno e posizionato in un luogo convenuto. Una volta assicurata la disponibilità del container, la squadra di portuali infedeli provvedeva a collocarlo in un’area “sicura”, appositamente individuata, per consentirne l’apertura e, quindi, lo spostamento della cocaina, in un secondo container, abitualmente indicato dagli indagati come “uscita”. Quest’ultimo, quindi, nelle ore successive veniva fatto uscire dal porto di Gioia Tauro grazie a un vettore compiacente e da questo trasportato nel luogo indicato dai responsabili dell’organizzazione.
La tecnica era sempre la stessa: individuata l’area di sbarco idonea allo scopo, il container con la droga veniva posizionato di fronte a quello in “uscita”, lasciando tra i due la sola distanza necessaria all’apertura delle porte per lo spostamento della merce illecita. Al di sopra dei due container, quindi, ne veniva adagiato un terzo, denominato appunto “ponte”, con lo scopo di celare, anche dall’alto, i movimenti nell’area sottostante. Una volta allestita l’area, al fine di non destare sospetti, i portuali infedeli venivano portati sul luogo delle operazioni, nascosti all’interno di un quarto contenitore, che veniva adagiato nella medesima fila ove era stata allestita la struttura. Terminate le operazioni, dunque, ai container venivano applicati sigilli contraffatti. A quello proveniente dal Sudamerica veniva apposto un sigillo “clone”, spedito dalla stessa organizzazione fornitrice ed occultato all’interno di uno dei colli contenenti la sostanza stupefacente, mentre al container in uscita veniva apposto un sigillo fasullo, predisposto dalla compagine criminale incaricata del recupero della droga.
Su richiesta della Dda, il gip ha disposto non solo gli arresti ma anche il sequestro di beni per equivalente per un valore di 7 milioni di euro, nonché l’intero patrimonio aziendale di due imprese, attive nel settore dei trasporti ed utilizzate per il compimento degli illeciti. Per il procuratore Giovanni Bombardieri, “l’importanza di quest’operazione sta nell’aver ricostruito l’operatività di alcuni gruppi di operatori portuali che erano dediti stabilmente e sistematicamente al servizio di cosche di ‘ndrangheta per esfiltrazioni di individuati carichi di droga”. “Ci tengo a precisare – ha concluso Bombardieri durante la conferenza stampa – l’evidente responsabilità personale degli indagati e non del sistema portuale di Gioia Tauro che è un’economia sana e legale assolutamente non coinvolta nell’inchiesta. Ciò non di meno non possiamo nascondere che, all’interno di quel sistema portuale, vi erano alcuni operatori portuali che in realtà erano dediti quasi esclusivamente ad attività illegali. Più cosche di ‘ndrangheta facevano riferimento a questi esfiltratori di sostanza stupefacente dal porto di Gioia Tauro”.