Dalla drammatica e rocambolesca fuga dall’Afghanistan dei Talebani alle incognite dell’accoglienza italiana. Non c’è pace per Kabir Haidary, per dieci anni dipendente a Camp Arena, la base militare del nostro contingente a Herat, e per la sua numerosa famiglia.
Nei giorni tra Natale e Capodanno di un anno fa sono riusciti a imbarcarsi verso Milano dal Pakistan dopo quattro mesi di autentico incubo e adesso sono a un bivio delicato del loro futuro: “Da otto mesi siamo entrati nel programma di accoglienza della prefettura di Chieti, ma pochi giorni fa un funzionario ci ha comunicato il cambiamento della nostra destinazione. Dall’Abruzzo alla Calabria, prima a Filadelfia, un comune di 5mila abitanti e poi, il giorno dopo, l’ulteriore novità: ‘siete stati destinati a Conflenti’, un paesino di meno di mille abitanti. Conosco l’Italia e so che in Calabria, specie in una zona sperduta, trovare lavoro è molto difficile e io devo assolutamente trovare un’occupazione per mandare avanti la famiglia. Quando ho chiesto alla prefettura se c’era la possibilità di un’altra destinazione mi è stato risposto di no, inoltre mi hanno comunicato che presto dovremo lasciare il programma”.
Kabir Haidary è visibilmente preoccupato, i tempi sono strettissimi e il rischio di restare per strada con moglie, tre figlie piccole (l’ultima è nata due mesi dopo l’arrivo in Italia) e i genitori è concreto: “Tre giorni fa è arrivata la comunicazione da parte delle suore che gestiscono la struttura di accoglienza di Chieti dove viviamo (Villaggio della Speranza, ndr) in cui ci si chiede di accettare la nuova destinazione calabrese entro domenica 2 ottobre. Martedì 4 saremmo attesi a Conflenti per proseguire in un altro programma, ma noi non vogliamo andare – racconta Haidary a ilfattoquotidiano.it in un ottimo italiano -. Non abbiamo nulla contro la Calabria, ci mancherebbe, e siamo molto grati all’Italia per l’aiuto ricevuto dopo il ritorno al potere dei Talebani. Il problema è che io guardo al futuro: senza lavoro non riusciremo mai a crescere e ad avere una vita nostra, perciò abbiamo deciso di non accettare la destinazione. Per non parlare dell’integrazione di una famiglia afghana in un paesino dell’interno di quella regione, con collegamenti e trasporti complessi e così via”.
Ciò che sta accadendo agli Haidary è semplicemente un passaggio di consegne sul fronte dell’accoglienza. La prima fase è stata gestita dalla prefettura teatina in un programma Cas, i centri di accoglienza straordinari; la gestione sarebbe dovuta passare ai Comuni e al programma Sai (Sistema accoglienza e integrazione), ma la famiglia afghana ha declinato. Le conseguenze per gli Haidary sono pressoché immediate, tempo per lo svolgimento di una procedura attesa con gioia e orgoglio: “Non appena la prefettura consegnerà al resto della mia famiglia i rispettivi permessi di soggiorno dovremo lasciare il Villaggio della Speranza e saremo praticamente in strada, senza una casa e senza uno stipendio per vivere. Questione di settimane. Se fossi stato da solo, al massimo con mia moglie, una soluzione l’avremmo trovata comunque, ma stare in strada con tre figlie piccole e i genitori, con mia madre che soffre di diabete, sarà un problema molto serio”.
Sulla volontà di Kabir Haidary di trovare un lavoro, stabile o meno che sia, c’è l’esperienza dell’estate appena conclusa. Per tre mesi il 33enne ha fatto avanti e indietro tutti i giorni da Chieti a Francavilla a Mare in servizio in un ristorante sulla costa per la stagione estiva, assunto in cucina con un contratto regolare. La ristorazione è stata in parte la sua formazione professionale negli anni di lavoro a Camp Arena, oltre a mansioni successive anche nell’area tecnica della base militare. Kabir Haidary lancia un ultimo appello: “In questi mesi diversi afghani e nuclei di altre nazionalità hanno ricevuto destinazioni molto buone, noi siamo gli unici inviati in un paesino sperduto. Spero che qualcuno possa aiutarci a risolvere il problema”.