Un paradiso dai decenni contati e una lotta per la sopravvivenza per la quale poco hanno fatto finora le Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Un paradiso che ora si trova, insieme a diversi Stati del Pacifico, al centro di una guerra di influenza tra Stati Uniti e Cina. “A Tuvalu, siamo di fronte a una situazione incombente: la quasi certezza di un’inondazione definitiva”. A scrivere queste parole, in una lettera pubblicata dal Time, è Kausea Natano, primo ministro dello stato insulare polinesiano di Tuvalu, tra le isole Hawaii e l’Australia. Se è ormai assodato che diverse nazioni del Pacifico diventeranno inabitabili entro la fine di questo secolo, dunque non più tardi di un’ottantina di anni, per Tuvalu questo scenario potrebbe avverarsi nei prossimi due o tre decenni. Queste isole, infatti, si trovano a solo pochi metri sul livello del mare. Così si cercano soluzioni pratiche: Natano, che ha raccontato il dramma del suo popolo anche dal Palazzo di Vetro di New York, sta cercando di salvare la sua nazione dall’annegamento, sollevando il terreno da 4 a 5 metri sul livello del mare attraverso la bonifica del suolo; ma si cerca anche una nuova terra, per esempio in Australia, che possa accogliere i dodicimila abitanti di questo Stato e un modo per far sì che la loro storia e la loro cultura non vadano perse per sempre.

Il ministro tra i papabili per il Nobel – Di grande impatto il videomessaggio provocatorio trasmesso alla Cop 26 di Glasgow e nel quale Simon Kofe, ministro della Giustizia, degli Affari esteri e della Comunicazione di Tuvalu pronunciava il suo discorso sui rischi dell’innalzamento del livello del mare, vestito con giacca e cravatta, ma immerso nell’acqua fino alle ginocchia. E non è un caso se il nome di Kofe sia tra i papabili per il Premio Nobel per la Pace – secondo un sondaggio Reuters – insieme, per esempio, a quelli del presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy e dell’attivista ambientale Greta Thunberg. Perché quello che sta accadendo a Tuvalu, con le cosiddette ‘maree reali’ che hanno più volte sommerso persino la pista di atterraggio dell’aeroporto, riguarderà – anche se nei prossimi decenni – diverse nazioni ritenute a rischio.

Il disastro è già iniziato per 12mila persone – “Quando l’oceano si alza, l’acqua salata penetra nelle falde che forniscono la nostra acqua potabile. L’aumento dell’oceano porta maree più alte e, con l’aumento dell’intensità della tempesta, i nostri villaggi e i campi vengono devastati” racconta al Time il primo ministro Natano. Le inondazioni lasciano, però, anche il sale sul terreno: questo riduce i raccolti e la vegetazione. Il primo ministro descrive lo scenario ormai inevitabile: “Case, strade e linee elettriche vengono spazzate via e non esistono terreni più alti su cui ricostruire. Così muore un atollo del Pacifico. Così le nostre isole cesseranno di esistere”. E spiega: “Tuvalu non ha ancora raggiunto la fine di questo processo di salinizzazione, distruzione, degrado e morte. Ma siamo ben oltre l’inizio”. Data la situazione, dunque, si pongono problemi importanti su quale sarà il destino di circa 12mila persone. A margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si è svolta a fine settembre a New York, i capi di Stato di Tuvalu e delle Isole Marshall hanno lanciato la Rising Nations Initiative, per colmare le attuali lacune in termini di consapevolezza, quadri giuridici e impegno politico. Insomma, bisogna stabilire fin da ora cosa avverrà quando gli atolli del Pacifico scompariranno. E si chiede un accordo per il trasferimento degli abitanti in altri Stati, dove questi popoli possano mantenere la loro sovranità e cittadinanza e dove ne vengano riconosciuti integrità culturale, capitale umano ed economico e diritti. Una questione non facile da risolvere, anche perché qualunque intervento – doveroso – rappresenterà un precedente per tutti i Paesi a rischio, dove la crisi climatica porterà milioni di sfollati.

I milioni di Washington, una mossa nella guerra d’influenza tra Usa e Cina – In questo momento storico, però, gli Stati del Pacifico si trovano al centro di una vera e propria guerra d’influenza. Il 28 e il 29 settembre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ospitato a Washington il primo Us-Pacific Summit, al quale hanno partecipato dodici Stati delle isole del Pacifico. Oltre a Tuvalu, anche Fiji, Isole Marshall, Micronesia, Palau, Papua Nuova Guinea, Samoa, Isole Salomone, Tonga, Isole Cook, Polinesia francese e Nuova Caledonia. Tutti circondano la Cina, diventata negli anni primo partner commerciale per molte nazioni. Il vertice si è concluso con l’approvazione di un documento in 11 punti, dove si parla anche degli impatti della ‘concorrenza geopolitica’ sui paesi e si legge: “Sempre più quegli impatti includono la pressione e la coercizione economica da parte della Repubblica popolare cinese, che rischia di minare la pace, la prosperità e la sicurezza della regione e, per estensione, degli Stati Uniti”. Morale: alla fine del vertice Washington ha annunciato che fornirà oltre 810 milioni di dollari nei prossimi dieci anni per sostenere lo sviluppo economico delle isole del Pacifico, di cui 130 milioni andranno al contrasto del climate change. Un modo per ricucire il rapporto con nazioni che da anni lamentano l’indifferenza degli Stati Uniti ma, soprattutto, per rafforzare la presenza Usa in quest’area che da anni fa i conti con il crescente peso di Pechino. Washington si è mossa, però, solo dopo la Cina che ad aprile 2022 aveva siglato un accordo di sicurezza con le isole Salomone (tra i firmatari del documento di Washington) e a giugno scorso aveva inviato il ministro degli esteri Wang Yi nella regione per siglare accordi di cooperazione economica in diversi settori. Un tentativo, quest’ultimo, fallito. C’è da chiedersi chi guadagnerà di più dal riavvicinamento tra Usa e Pacifico, considerando che la vera partita per questi Paesi resta quella che da anni perdono ai tavoli delle Cop.

In attesa della Cop 27 – Anche il futuro di Tuvalu sarà certamente al centro delle discussioni della prossima conferenza che si terrà dal 6 al 18 novembre 2022 a Sharm El Sheikh, in Egitto. I precedenti, però, non raccontano nulla di buono: correva l’anno 2009, infatti, quando alla conferenza sul clima di Copenaghen i delegati di Tuvalu lanciarono il primo appello internazionale all’Onu, chiedendo di ridurre le emissioni di gas serra. Da allora la concentrazione di CO2 in atmosfera è aumentata. E alla Cop 26 dello scorso anno le nazioni ricche hanno respinto le proposte dei Paesi in via di sviluppo che chiedevano una nuova modalità per affrontare perdite e costi (‘loss and damage’) causati dalla crisi climatica, rinviando il problema a una negoziazione triennale in vista di accordi futuri. Il primo passo in questa direzione, tra i Paesi Onu, lo ha fatto la Danimarca: verserà oltre 13 milioni di dollari (100 milioni di corone danesi) per sostenere i paesi in via di sviluppo che hanno subìto perdite causate dai cambiamenti climatici. Solo la Scozia e la regione della Vallonia, in Belgio, avevano stanziato fondi per pagare i danni provocati nei paesi più poveri dagli eventi estremi. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha invece esortato i paesi ricchi a tassare i profitti inaspettati delle compagnie di combustibili fossili e utilizzare quei soldi per compensare “i paesi che subiscono perdite e danni causati dalla crisi climatica”.

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