Il prefetto Vittorio Rizzi commenta la ricerca condotta dal Dipartimento di pubblica sicurezza insieme a Transcrime dell?Università cattolica. "La nostra maggiore preoccupazione? Quando un minore diventa funzionale alla criminalità organizzata". La pandemia: "Certo non ha fatto bene alle nuove generazioni"
Le bande giovanili sono un fenomeno pericoloso “da tenere sotto controllo, e infatti lo stiamo facendo”. Però non bisogna illudersi che per contrastarle basti la repressione di polizia e magistratura: “L’intervento più efficace è quello che si fa prima, formativo e informativo, dalla famiglia alla scuola”. Così Vittorio Rizzi, vicedirettore generale della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno e capo della Polizia criminale, commenta la ricerca sulle gang giovanili che il Dipartimento di pubblica sicurezza ha voluto curare insieme al centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica di Milano. “La collaborazione con l’accademia testimonia la crescita culturale delle forze di polizia, la volontà e lo sforzo di analisi sui dati di un fenomeno che non è solo criminale”, ci tiene a precisare il prefetto Rizzi, investigatore di grande esperienza nell’anticrimine e nell’antiterrorismo – ha coordinato fra l’altro le indagini sull’omicidio Biagi a Bologna – che al ministero dell’Interno “rappresenta” tutte le forze dell’ordine e non solo la Polizia di Stato.
Prefetto Rizzi, perché avete sentito il bisogno di una ricerca accademica su questo fenomeno?
Il racconto delle cosiddette baby gang – termine che non mi piace – è avvenuto finora soprattutto con una narrazione giornalistica che metteva insieme cose diverse, dalla famosa “paranza dei bambini” a Napoli alle gang latine che si ispirano a organizzazioni criminali latino-americane, come la Mara Salvatrucha. Abbiamo voluto sistematizzare il fenomeno, distinguendo fra diversi tipi di aggregazione, dal più fluido al più organizzato.
Gruppi molto diversi, ma la ricerca sembra indicare una radice comune.
La radice comune è il disagio. Certo, l’intervento di contrasto va calibrato in modo diverso secondo il gruppo che si ha di fronte, ma di base stiamo parlando di minorenni o poco più. Siamo di fronte a una sorta di contraddizione: commettono reati, ma al tempo stesso sono soggetti vulnerabili. Non a caso nella ricerca è coinvolto il Dipartimento della giustizia minorile.
Quanto ha pesato la pandemia? Registrate un aumento di questi reati?
È evidente che un periodo prolungato di pandemia, in cui le relazioni fra giovanissmi si sono svolte quasi esclusivamente in modo virtuale, non ha fatto bene alle nuove generazioni, dunque può aver inciso sul fenomeno. C’è però da dire che se leggiamo più notizie al riguardo sui media non è perché ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, ma perché c’è maggiore attenzione, il che è positivo.
C’è qualche gang che vi preoccupa particolarmente?
L’allarme scatta soprattutto quando un minore diventa funzionale alla criminalità organizzata. Per esempio sappiamo che le gang “latine” come la Mara Salvatrucha nei Paesi d’origine sono pericolosissime, quindi l’intervento va contestualizzato. In generale dobbiamo guardare con un’attenzione speciale alle gang che si danno una struttura stabile, italiane o straniere che siano. Maggiore è l’organizzazione, maggiore è il pericolo.
A proposito, in molti episodi di cronaca legati alla gang giovanili sui media si è messo in risalto il ruolo dei ragazzi stranieri. La ricerca dice invece che sono coinvolti di più ragazzi italiani.
Queste valutazioni le lascio ai ricercatori, mi limito a dire che va tutto rapportato alle percentuali di popolazione giovanile, e ovviamente i giovani italiani sono più dei giovani stranieri.
Perché non le piace il termine “baby gang”?
Perché richiamare i “bambini” sembra ridurre la portata del fenomeno. Parliamo di minorenni, ma anche di giovani di oltre vent’anni, parlare di baby gang non è appropriato. Noi ci atteniamo alla definizione condivisa a livello internazionale, “juvenile gangs”, bande giovanili.