Cultura

“Quando in Italia Annie Ernaux era una sconosciuta e pubblicò con la casa editrice L’orma. Io lavoravo per la promozione e la critica la liquidava con un ‘non mi piace'”

Chiara Di Domenico, per anni ufficio stampa dell’editoria indipendente, oggi insegna italiano e storia all’IIs Machiavelli di Pioltello. E' stata responsabile della comunicazione de L’orma dal 2012 al 2016, la casa editrice che nel 2014 pubblicò e tradusse "Il posto" di Annie Ernaux. Due anni dopo la scrittrice francese vinse il Premio Strega Europeo

di Chiara Di Domenico

Il primo ricordo sono le mani. Le mani dicono da dove vieni: se sei umile non sai mai come tenerle, quando sai che gli altri ti guardano.

Le sue mani e poi le sue gambe nude, lunghe e ancora belle, che non sapevano star ferme sotto il tavolo, alla prima presentazione italiana al FestivaLetteratura di Mantova nel 2014. E quella facilità a dire “grazie” che viene dalla consuetudine con la fatica, quella diffidenza verso i salotti e di contro l’amore schietto per la dignità che solo il lavoro può dare: queste sono le prime cose che riaffiorano alla mente se penso ad Annie Ernaux oggi che è il Premio Nobel per la Letteratura.

In quell’anno che vide la pubblicazione in Italia e la faticosa promozione di “Il posto”, il suo primo romanzo tradotto per L’orma dal suo editore Lorenzo Flabbi, lei mi scriveva ringraziandomi ogni volta che per dieci giornalisti inappetenti riuscivo a far uscire un articolo. Eravamo due sconosciute, ma lavoravamo insieme, e nel lavoro e nelle mani eravamo vicine. In Francia era già un’icona, ma in Italia il refrain della maggioranza della critica era “Non lo conosco e non mi piace”: il nome della casa editrice veniva ferocemente storpiato, talvolta, dall’indifferenza fino a divenire “L’urna”, ma tra gli addetti ai lavori c’era anche chi, amante della letteratura francese e memore dei libri precedentemente tradotti e passati per lo più nel silenzio, la ricordava con curiosità. O chi, meritoriamente, dopo essere stato debitamente assillato dalla sottoscritta, leggeva il libro e restava colpito da quel modo di scrivere così netto e profondo.

Merito di Flabbi che ci aveva visto lungo e aveva acquistato i diritti (rimasti fino allora invenduti in Italia) del suo romanzo più bello, quello che l’aveva consacrata anche in Francia: “Il posto”, in cui un rapporto tra padre e figlia viene sviscerato senza pietà nel breve di giro di 120 pagine.

Ero arrivata a L’orma nel 2012: avevo lasciato una nota casa editrice per “scappare” coi due giovani e geniali editori Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari, che avevano appena fondato L’orma negli anni più bui della crisi dell’editoria. Proprio in questi giorni si festeggia il suo decimo, felice compleanno.

«Quindici giorni come le cameriere«, fu il commento della padrona del noto marchio editoriale all’annuncio delle mie dimissioni. Mi guardava dalla sua poltrona, le mani sicure sui braccioli di pelle come due leonesse adagiate a custodia di una fortezza. Avevo vissuto quel passaggio impetuoso a L’orma come una fuga da un marito ricco, vetusto e dispotico verso un amore che poteva garantirmi solo la sincerità dei suoi sentimenti e la sua giovane bellezza. Forse per questo i frutti che sono nati dal nostro sodalizio sono stati così belli.

Una volta, un noto comico italiano ha detto che andando a cena dagli amici non portava più il vino, portava un libro di Annie Ernaux. Nel 2016 ormai aveva conquistato tutti: ricordo la sua sorpresa e la gioia di tutti noi quando la annunciarono vincitrice del Premio Strega Europeo. Si era arrabbiata perché al tavolo del ricevimento erano previsti solo gli editori e le autorità: trovava assurdo che non ci fosse il suo ufficio stampa col quale aveva lavorato giorno dopo giorno. Ad entrambe piaceva passeggiare per Roma, così l’indomani andammo insieme alla basilica di San Paolo Fuori le Mura che lei voleva assolutamente vedere prima di ripartire. Fu l’ultimo pomeriggio che passammo insieme.

Ho cambiato lavoro, ho cambiato vita e città. Altri avrebbero coltivato un rapporto epistolare, sarebbero andati a trovarla. Non sono brava a coltivare le relazioni a distanza. Sono pigra, non realizzo facilmente che gli “ieri” si allontanano lasciando delle assenze e il prezzo di questo è proprio la dissoluzione. Per questo le immagini sono così importanti.

Un’altra immagine che riaffiora nella mia mente è una foto di un anno prima: io arruffata e beata che abbraccio lei la sera del mio compleanno, a Roma, durante la fiera “Più Libri Più Liberi”, e lei che si fa stringere divertita e affettuosa davanti alla mia gioia scomposta, sopportandomi e ridendo. Per tutti gli anni da ufficio stampa ho sofferto e goduto del lavorare nel caos panico di una fiera: giorni scanditi da caffè per tenerti su, Rustichelle, alcolici per non andare giù, e l’ansia di non essere mai abbastanza intelligente e avere il rossetto sui denti mentre discetti di letteratura, musica, gentilezza e persuasione.

Quella notte non avevo dormito: come tradizione, tra un caffè, una Rustichella e una vodka avevo salutato il mio compleanno tirando mattina con i miei amici randagi al Circolo Fanfulla al Pigneto, tra cui anche i miei editori con cui avevamo ballato e riso a crepapelle. La mattina dopo mi ero infilata nell’unico vestito intero che avevo e, con tre ore di sonno, avevo stoicamente affrontato la maratona di interviste che, dopo il successo de “Gli anni”, erano iniziate ad arrivare numerose. Lei mi aveva chiesto se fossi ancora sicura di voler anche cenare con lei quella sera, per me era insensato non esserci. La fatica di quella giornata e la felicità di stare insieme, una gioia che non ha nulla a che fare con la carriera ma ha molto a che fare con l’affetto, è lì fissata in quella foto. Sarà forse per questo motivo che non la pubblico e la tengo gelosamente in un cassetto.

Ci siamo divertite, abbiamo faticato, ci siamo scritte per anni, poco a causa della mia pigrizia, fino a quando, come se seguissi i suoi passi, la vita non mi ha portato a scuola, proprio come era successo a lei, che oltre ad essere una scrittrice è stata e resta una professoressa. E le maestre, quelle brave, abbracciano sempre le alunne randagie, quelle che non sanno mai dove mettere le mani quando gli altri le guardano, quelle che non sanno sorridere né tantomeno stare in posa e non vengono mai bene in foto, perché si muovono.

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