Il presidente Usa Joe Biden evoca l’Armageddon nucleare, la Casa Bianca precisa poi di non avere prove che il rischio sia “imminente”. Ma intanto il Pentagono pensa all’apertura di una base a Wiesbaden, in Germania, per seguire la guerra in Ucraina più da vicino. E soprattutto è deciso a continuare ad inviare armamenti per miliardi di dollari a Kiev. Se da una parte il segretario di Stato Antony Blinken non esclude di aprire un tavolo con la Russia, ma aggiunge anche che la Russia non ha mostrato alcun interesse per un dialogo significativo e, anzi, “ogni segnale in questo momento purtroppo punta nella direzione opposta”. Per aprire un tavolo servono le condizioni per farlo, che al momento non ci sono. Per questo la linea dell’amministrazione americana resta quella della fermezza. E l’orientamento dell’intelligence così come dei democratici Usa è stabile su questa rotta, al momento. Rappresentativo dell’attuale orientamento dell’amministrazione è un protagonista della politica e della sicurezza Usa, l’ex direttore della Cia, David Petraeus, che in un’intervista a ABC News di alcuni giorni fa ha spiegato che, nel caso la Russia dovesse usare il nucleare in Ucraina, le forze Nato interverrebbero e cancellerebbero totalmente, con armi convenzionali, la presenza delle truppe di Mosca sul territorio ucraino.
Le dichiarazioni di Petraeus sono interessanti perché vengono da un uomo ancora molto “interno” alle burocrazie militari e dell’intelligence Usa, di cui quindi il generale si fa ora portavoce spiegando che gli Stati Uniti si riservano una risposta militare e non stanno al momento pensando ad alcuna apertura diplomatica con Mosca. Questo ci porta quindi direttamente alla strategia di Joe Biden e della sua amministrazione. Il presidente Usa, durante tutto il conflitto, ha cercato di percorrere una via molto stretta e difficile. Da un lato, completa assistenza militare e finanziaria a Kiev e sanzioni durissime contro Mosca. Dall’altro, rifiuto di qualsiasi coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e della Nato nel conflitto. Di qui, il rifiuto Usa alle ripetute richieste di Volodymyr Zelensky perché l’Ucraina entri, da subito, nella Nato. E le resistenze che Biden ha sempre espresso all’invio a Kiev di lanciarazzi che possano mettere gli ucraini nelle condizioni di colpire all’interno della Russia.
Si tratta di una via stretta e difficile perché, comunque, Stati Uniti e alleati hanno fatto affluire in Ucraina una quantità di armi e finanziamenti senza precedenti, costringendo le truppe russe a umilianti disfatte. Di più, le sanzioni non hanno messo in ginocchio Mosca ma sicuramente hanno inciso profondamente sul suo tessuto economico e produttivo. Il convergere di questi differenti fattori ha messo in un angolo Putin che ha reagito con il richiamo dei riservisti, i referendum e le annessioni, minacciando l’uso di armi nucleari nel caso la l’esistenza stessa della Russia venisse minacciata dal “Satana occidentale”. Questi ultimi eventi, soprattutto la minaccia nucleare sventolata dal presidente russo, introducono dunque sicuramente un elemento di novità ma non paiono al momento tali da modificare la posizione sin qui seguita dall’amministrazione.
Perché, da un lato, vale quello che ha detto Petraeus nell’intervista a ABC. Sicuramente le minacce di Putin devono essere prese sul serio, ma anche nel caso in cui i russi usassero il nucleare in Ucraina, la risposta di Stati Uniti e Nato sarebbe comunque limitata all’uso di armi convenzionali e non tale quindi da innescare l’escalation nucleare. Dall’altro lato c’è una considerazione che si sta facendo strada nell’intelligence militare Usa. Quando Putin parla di risposta nucleare in Ucraina, si riferisce ad armi nucleari tattiche, quindi atomiche di limitata potenza e utilizzabili sul campo di battaglia contro le truppe nemiche. Questi ordigni, ritiene l’intelligence Usa, potrebbero essere scaricati contro una base militare ucraina o su una città di piccole-medie dimensioni. Gli effetti sarebbero ovviamente devastanti, nel senso che le vittime potrebbero essere centinaia di migliaia. Da un punto di vista strategico-militare, le cose non cambierebbero però sostanzialmente le sorti della guerra. Una porzione di suolo ucraino sarebbe messa off-limits, ma questo non avrebbe l’effetto di bloccare la controffensiva di Kiev. Di più, la Russia si condannerebbe definitivamente al ruolo di paria nella comunità internazionale, perdendo anche l’appoggio residuo di Cina e India. Senza contare che le radiazioni emanate dall’ordigno potrebbero colpire gli stessi soldati russi al fronte e prendere direzioni impreviste, seminando paura e morte anche all’interno del territorio russo.
A Washington, in altre parole, sono convinti che le ricadute negative dell’uso del nucleare tattico da parte di Mosca sarebbero di gran lunga maggiori rispetto a quelle positive e che dunque Putin e i suoi fedelissimi ci penseranno più volte prima di seguire questa strada. La posizione Usa, in fondo, l’ha sintetizzata bene il consigliere alla sicurezza nazionale Jake Sullivan che nei giorni scorsi ha spiegato che gli Stati Uniti sono consapevoli delle minacce nucleari di Putin ma che, al momento, non ci sono segnali che il Cremlino abbia scelto questa strada. Di qui, come si diceva, la scelta di riaffermare la politica di questi mesi: nuovi aiuti militari a Kiev – l’amministrazione ha chiesto al Congresso di approvare una tranche da 13,7 miliardi in assistenza per l’Ucraina -, ulteriori sanzioni contro la Russia, nessun vero passo diplomatico verso Mosca, almeno fino all’arrivo dell’inverno che dovrebbe dare un quadro più chiaro degli esiti della controffensiva ucraina.
Se questo è lo stato delle cose oggi, non significa però che la situazione a Washington non possa cambiare nelle prossime settimane. E a farla cambiare potrebbe essere proprio il fattore economico. Come si diceva, sinora la copiosa assistenza che Biden ha offerto all’Ucraina non è stata messa in discussione da nessuno. Il partito democratico è compatto dietro il suo presidente. Nessun democratico progressista, alla Camera e al Senato, si è opposto agli stanziamenti sin qui decisi dall’amministrazione. Tutto il campo progressista, da Bernie Sanders ad Alexandra Ocasio-Cortez e The Squad, da Ro Khanna a Barbara Lee, ha votato ogni singolo centesimo, ogni singola arma inviata a Kiev. Del resto, non esiste in questo momento un fronte anti-guerra Usa che questi progressisti possano rappresentare, e nel campo progressista il ripudio dei metodi autocratici e liberticidi di Putin ha la meglio su qualsiasi richiesta di porre fine al conflitto.
Lo stesso si può dire per i repubblicani, che hanno a gran maggioranza votato per l’assistenza militare e finanziaria chiesta da Biden e che anzi, in diversi frangenti, hanno accusato la Casa Bianca di non fare abbastanza a favore di Kiev. Nelle ultime settimane ci sono però segnali che qualcosa, proprio dentro il partito repubblicano, sta cambiando. I settori più sensibili agli equilibri di bilancio cominciano a guardare con preoccupazione all’entità degli aiuti che da Washington prendono la via di Kiev. Gli Stati Uniti hanno già impegnato 44 miliardi di dollari nel conflitto ucraino. Altri, come detto, aspettano di essere votati dal Congresso. La cosa suscita riserve, soprattutto di fronte all’assai minore entità degli aiuti europei. Il senatore repubblicano del Kansas Roger Marshall ha per esempio notato che “i contributi europei al conflitto sono crollati e hanno trasformato lo scontro in una sorta di guerra per procura degli Stati Uniti alla Russia”. Un altro repubblicano, il deputato del Tennessee Tim Burchett, gli ha fatto eco: “È tempo che gli europei facciano la loro parte”. Sono affermazioni che riecheggiano le vecchie polemiche sui mancati finanziamenti degli europei alla Nato e che si innestano ora sulla spesa complessiva Usa in questo nuovo conflitto.
Di qui dunque la possibilità che, nel caso i repubblicani dovessero riconquistare Camera o Senato alle prossime elezioni di midterm (o magari entrambi i rami del Congresso), Biden possa avere maggiori difficoltà a mantenere i rubinetti aperti a favore di Kiev. A quel punto, forse, grazie anche a un quadro più esatto di perdite e conquiste sul terreno, l’opzione diplomatica potrebbe riprendere forza e diventare una strada percorribile. Per il momento, però, a Washington ci si concentra sulla forza delle armi e si osserva con preoccupazione chi, dal Cremlino, dirige le sorti della guerra.