Lo zar è circondato da un coro di voci che gridano alla rappresaglia contro Kiev. Si tratta di personaggi pubblici tra i più influenti, a partire dall'ex consigliere del presidente russo, il politologo Serghei Markov, che avverte: "Se non c'è una risposta dura e dolorosa per l’attacco terroristico contro il ponte di Crimea, allora gli attacchi terroristici potrebbero presto arrivare nelle principali città russe". Quali gli obiettivi della possibile rappresaglia? Quali i mezzi? "Tutti", rispondono i falchi di Mosca. Che però deve tener conto anche di Paesi amici come Cina e India
L’attentato di sabato al ponte di Kerch che collega la Russia alla Crimea ha scatenato un coro di appelli perché si arrivi a un’immediata rappresaglia contro l’Ucraina. A lanciarli, alcuni tra i personaggi pubblici più influenti tra i sostenitori del presidente Vladimir Putin. Gli appelli fanno leva sulle promesse dello stesso leader russo, che ha più volte assicurato di essere pronto a usare “tutti i mezzi disponibili” per proteggere il Paese e il popolo russo qualora venisse “minacciato”. Quello al ponte di Kerch – sarebbe il ragionamento dei falchi a Mosca secondo molti analisti – è un affronto simbolico e un danno materiale all’emblema dell’espansionismo in Ucraina che non possono restare impuniti. E del resto, “anche il nuovo comando dell’offensiva, appena affidato al generale di ferro Serghei Surovikin, potrebbe spingere per un cambio di passo a suon di bombe”, scrive oggi l’Ansa. Così, alla vigilia della riunione del Consiglio di sicurezza convocata da Putin, il dilemma non sembra ruotare intorno all’eventualità di una risposta militare russa, quanto alle sue tempistiche e proporzioni.
“Il ponte della Crimea è stato colpito perché non c’è stata risposta per l’attacco terroristico contro il Nord Stream. E il Nord Stream è stato fatto esplodere perché non c’è stata risposta per il terrorismo nucleare nella centrale nucleare di Zaporizhzhia. Se non c’è una risposta dura e dolorosa per l’attacco terroristico contro il ponte di Crimea, allora gli attacchi terroristici potrebbero presto arrivare nelle principali città russe”. E’ l’invito alla rappresaglia di Serghei Markov, influente politologo russo già consigliere di Putin dal 2011 al 2019, apparso su Telegram e subito rimbalzato tra i corridoi del Cremlino. Mentre annunciava la mobilitazione di 300 mila riservisti per la guerra all’Ucraina, Putin aveva ribadito: “Questo non è un bluff”. Una dichiarazione che aveva spinto molti sostenitori occidentali dell’Ucraina a ipotizzare un possibile dispiegamento di armi nucleari tattiche contro le truppe ucraine qualora Kiev avesse ottenuto successi nella controffensiva “in quattro territori ucraini formalmente annessi dal Cremlino, o se l’Ucraina tentasse di riconquistare la Crimea”, ricordava ieri il quotidiano Politico. E per quanto Kiev non abbia rivendicato la responsabilità dell’esplosione del ponte, in molti temono che l’evento innescherà un’accelerazione nella strategia russa.
Secondo quanto scrive Markov sui social, l’attacco “terroristico” al ponte è la dimostrazione che “gli Stati Uniti e il loro regime per procura ucraino sposteranno la linea rossa sempre più in là”. Anche Konstantin Dolgov, membro della Camera alta del Parlamento russo, l’ha definito “un attacco terroristico” e un’altra “sinistra manifestazione della natura terroristica del regime fantoccio di Kiev”. Quanto a Zelensky, Dolgov ha scritto che “i terroristi vanno trattati in modo inequivocabile”. Con quali mezzi? E’ questa la domanda che si fanno tutti. Per i falchi, dal leader ceceno Ramzan Kadyrov all’oligarca e mente del gruppo Wagner, Evgenij Prigozhin, sarebbe legittimo il ricorso ad armi nucleari tattiche. Pressioni che, secondo i servizi ucraini, starebbero crescendo parallelamente alle minacce di destabilizzazione interna per forzare la mano allo zar, vittima di un’umiliazione con il ponte esploso proprio mentre celebrava il suo settantesimo compleanno.
L’obiettivo della rappresaglia? Rodion Miroshnik, che fino a poco tempo fa rappresentava a Mosca la Repubblica Popolare di Luhansk sostenuta dalla Russia, ha scritto sui social media che “i ponti ucraini non danneggiati sul fiume Dnieper appaiono ridicoli mentre brucia il ponte di Crimea”, riporta Politico. La scelta potrebbe infatti essere simmetrica: un’infrastruttura strategica per un’altra. Già dopo la ritirata delle sue truppe dalla regione di Kharkiv, Mosca aveva iniziato a colpire a ripetizione centrali elettriche, dighe e altri impianti civili. Attacchi che hanno lasciato intere regioni al buio o, come nel caso di Kryvyj Rih, la città natale del presidente ucraino Zelensky, hanno rischiato di provocare un disastro idrogeologico. Adesso la frequenza e l’intensità di questi raid potrebbero crescere con l’obiettivo di stremare la popolazione, colpendo anche fonti di riscaldamento in vista dell’inverno, o magari prendendo di mira porti e stazioni ferroviarie. L’altra strada della vendetta conduce ai simboli: centri del potere, palazzi, monumenti. Ma il Cremlino, in questo caso, faticherebbe a mantenere la retorica dell’obiettivo militare.
Il danneggiamento del ponte di Kerch, che collega la Russia con la Crimea, la penisola annessa da Mosca nel 2014, rappresenta solo anche un problema per i rifornimenti di uomini e armi della Russia alle sue unità nell’Ucraina meridionale. Il giornalista televisivo Vladimir Solovyov, sanzionato all’inizio dell’anno dall’Unione europea per attività di propaganda, ha scritto sul suo canale Telegram: “È tempo di rispondere. Con tutti i mezzi a disposizione”. E ancora: “L’Ucraina deve essere immersa in tempi bui“, ha scritto esortando la Russia a distruggere le infrastrutture ucraine. In ogni caso, si va dicendo negli ambienti pro-Cremlino, la “punizione a Kiev” non è stata né si attende immediata. Perché va capito bene cosa colpire e come farlo; ma anche per allontanare i sospetti di un’operazione dei servizi russi, un “pretesto per attaccare le infrastrutture civili dell’Ucraina”: una prudenza che servirebbe a legittimarsi davanti ai Paesi amici, dalla Cina all’India, sempre più insofferenti di fronte a una guerra che non accenna a finire. Ma che il momento sia decisivo lo pensano in molti. Andrei Medvedev, importante giornalista televisivo nonché vicepresidente del consiglio comunale di Mosca, ha dichiarato che “ciò che accadrà a noi russi dipende, tra le altre cose, dalla reazione (delle nostre autorità, ndr) agli eventi di oggi”.