Dalla stima, oltremodo ottimistica, di 65 milioni a circa sette. È il valore di quello che rimane dell’ex Perla Jonica, il complesso alberghiero di Acireale che, per lungo tempo, ha rappresentato in Sicilia un punto di riferimento per il turismo e di cui oggi resta soltanto lo scheletro affacciato sul mar Jonio. Lontano dai fasti del passato e con un branco di cani che abbaia a chi si avvicina alla recinzione, l’immobile è sempre stato al centro di storie intricate. Diverse tra loro, ma tutte interessanti sin dalle origini.

Costruito dai fratelli Costanzo – Carmelo fu uno dei “cavalieri dell’apocalisse mafiosa” di cui scrisse il giornalista Pippo Fava, poi ucciso da Cosa nostra – l’hotel è citato in più di un’inchiesta giudiziaria, alcune delle quali hanno segnato la storia del Paese. È il caso del processo a Giulio Andreotti, che ha avuto tra i testimoni uno degli ex gestori della Perla Jonica. Davanti ai giudici raccontò di come, tra gli anni Settanta e Ottanta, a occupare le stanze dell’hotel fossero stati boss del calibro di Nitto Santapaola. “Veniva sua moglie, prendeva l’appartamento quasi tutti gli anni per tre, quattro mesi”, raccontò.

Le sorti della Perla Jonica si sono riaccese a fine anni Duemila, quando a farsi avanti è stata una società con alle spalle Al Hamed Hamed Bin Ahmed, sceicco di Abu Dhabi. L’operazione, chiusa nel 2014, per diversi anni ha fatto sperare chi sogna un rilancio della struttura con tanto di sbocco occupazionale per una terra in cui il lavoro continua a scarseggiare. Lo sceicco, tramite i propri emissari, promise di farne un hotel della catena Hilton, trasformando il borgo di Capomulini in meta per il turismo di lusso.

Il progetto piacque anche all’allora governo guidato da Matteo Renzi: la Item, la società diventata proprietaria della Perla Jonica, ottenne un finanziamento da 24 milioni di euro da Monte dei Paschi di Siena e a fare da garante dell’investimento, tramite Invitalia, c’era il ministero per lo Sviluppo economico. L’intera scommessa, però, nonostante i tentativi di affidare la ristrutturazione a più general contractor, si è risolta in un nulla di fatto. Una bolla di sapone, esplosa definitivamente nel 2020 con il fallimento della società.

Guardando tra i bilanci della Item – i cui amministratori italiani compaiono insieme allo sceicco anche dentro una società maltese, tra quelle citate nei Paradise Papers – i tecnici del tribunale hanno scoperto alcune stranezze che contribuiscono a ricostruire i contorni di ciò che non è andato come ci si sarebbe immaginati. Tra i costi contabilizzati dalla Item ci sono stati, per esempio, l’acquisto di una Ferrari, poi rivenduta allo stesso sceicco, e il finanziamento della Bell Pottinger, società britannica che negli anni è stata accusata di fomentare la disinformazione in giro per il mondo.

L’ultimo capitolo della storia della Perla Jonica risale a questa estate. A luglio, si è svolta l’asta per la vendita dell’immobile detenuto dal tribunale. Dopo una prima tornata deserta, il bene è stato assegnato all’unico partecipante. E seppure al momento si tratta di un’aggiudicazione provvisoria, e sulla carta ci sarebbe la possibilità che qualcuno intervenga per rilanciare il prezzo, in molti credono che i giochi siano fatti per circa sette milioni di euro. Cifra molto lontana dai 65 milioni indicati da Item nella contabilità del 2019. Il nuovo proprietario dovrebbe essere la Med Group. Si tratta di una delle tante società della famiglia Rappa, imprenditori palermitani negli ultimi anni finiti al centro delle cronache. Ad amministrarla è Vincenzo Corrado Rappa, 49enne, in passato legato alla figlia del più volte ministro e parlamentare Carlo Vizzini. Rappa – e con lui il padre, il fratello e altri parenti – di recente si è tirato fuori da una complicata vicenda che, tra il 2014 e il 2018, aveva portato alla confisca del patrimonio per un valore di oltre 200 milioni. La scorsa primavera, però, la Corte d’appello di Palermo ha revocato per buona parte i decreti emessi dal tribunale, ordinando la restituzione dei beni immobili e delle società.

All’origine della disposizione dei sigilli da parte del tribunale c’erano state le vicissitudini giudiziarie di Vincenzo Rappa, il nonno dell’amministratore di Med Group. L’uomo, nel 2004, pochi anni prima di morire, era stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio aggravato, per i rapporti avuti con esponenti di diverse famiglie di Cosa nostra, dai Madonia ai Galatolo. Nel processo penale, i giudici avevano ravvisato due fasi nella parabola imprenditoriale del capostipite: la prima, negli anni Ottanta, in cui Rappa “aveva dovuto – si legge nel decreto che ha portato al dissequestro – soggiacere alle pretese del sodalizio mafioso”, pagando in prima persona le estorsioni; e un’altra, a inizio anni Novanta, in cui l’uomo aveva intrattenuto rapporti di fiducia con i boss, facendo “affari con membri di assoluto rilievo dell’organizzazione e aveva operato quale imprenditore edile in cointeressenza con Cosa nostra”. Tre in particolare erano state le operazioni finanziarie finite nel mirino dei magistrati.

La difesa di Vincenzo Rappa, dal canto suo, ha sempre offerto un’interpretazione diversa dei fatti: l’imprenditore sarebbe stato sempre e soltanto vittima del giogo mafioso. La battaglia degli avvocati della famiglia Rappa ha portato, a giugno 2020, a un pronunciamento della Corte d’appello di Caltanissetta che, esaminando la richiesta di revisione della sentenza del 2004, ha cancellato la condanna per riciclaggio comminata all’ormai defunto capostipite mentre ha confermato quella relativa al reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Per quest’ultima, però, i legali hanno già presentato istanza di revisione alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). “Alla luce – viene ricostruito nel decreto che ha portato al dissequestro dei beni degli eredi – della sentenza 14.4.2015 n. 3 (Contrada c/Italia), in relazione al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, che non è stato ritenuto prima del 1994 sufficientemente chiaro e prevedibile”. Oltre alla vicenda relativa all’ex uomo del Sisde Bruno Contrada, che si è visto cancellata dalla Cedu la condanna per concorso esterno subita in Italia, i legali nell’istanza hanno fatto riferimento a dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo “sopravvenute al passaggio in giudicato della sentenza a carico di Rappa” e che andrebbero a sostegno della tesi difensiva.

Richiesta di revisione a parte, le vicissitudini giudiziarie del capostipite dei Rappa, per la Corte d’appello di Palermo non avrebbero inciso al punto da creare le condizioni per disporre la confisca dell’immenso patrimonio della famiglia, larga parte del quale risalente a una fase antecedente ai fatti oggetto di condanna. Il pronunciamento ha così messo gli eredi nella condizione di guardare al futuro. Quello della Perla Jonica, da questo punto di vista, rappresenta una delle prime scommesse. E per quanto tra i diretti interessati non arrivino commenti ufficiali, c’è chi sostiene che l’interlocuzione con Hilton potrebbe presto ripartire.

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