Durante queste settimane di proteste in Iran per la morte della 22enne Mahsa Amini, la questione del velo sta monopolizzando l’attenzione dei media occidentali. Per certi versi anche ben oltre la sua rilevanza complessiva all’interno della profonda crisi che vive il Paese e sicuramente a svantaggio di questioni meno simboliche ma più profonde e strutturali, come ad esempio il ridotto accesso delle donne al mercato del lavoro: secondo i dati elaborati dalla Fondazione Bourse and Bazaar, la partecipazione attiva delle donne nel mondo del lavoro è crollata di 5 punti percentuali dal luglio 2018 – quando sono state reintrodotte le sanzioni -, attestandosi al 13% a settembre 2022, e in generale continuando a evidenziare un evidente disallineamento tra livelli di istruzione e livelli occupazionali.

Le donne in Iran costituiscono da decenni la maggioranza (circa il 60%) degli studenti universitari, ma hanno tassi di occupazione di meno della metà rispetto agli uomini. Tuttavia, il velo sta assumendo rilevanza soprattutto per quel che rappresenta in Iran, cioè un obbligo normativo, per la dimensione sociale che sottende e per i conflitti latenti che implica. È possibile che l’aumento delle proteste – soprattutto per quanto riguarda le donne – in queste settimane rifletta un irrigidimento palpabile del clima di controllo da parte delle autorità: questo perché lo scorso inverno l’Agenzia per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha inoltrato agli altri organi di governo un documento di 119 pagine – Progetto Hijab e castità – approvato precedentemente dallo Shoraye A’Ali Enqelabe Farhangi (Consiglio supremo per la rivoluzione culturale).

Questo documento – divenuto pubblico lo scorso agosto – delinea in modo abbastanza chiaro i punti principali del rafforzamento delle misure di controllo del dress code, e dispone, tra gli altri, l’introduzione di videocamere di sorveglianza nelle strade per monitorare ed eventualmente multare le donne non velate o mal velate, oppure per assegnarle a un “consulente” che le sottoponga a un percorso di “rieducazione” (e che ha potere di cancellare le eventuali multe); l’obbligo per lo staff ospedaliero di fornire indumenti “adeguati” alle pazienti che devono sottoporsi a chirurgia; l’introduzione di multe per chiunque disegni, importi, compri o venda indumenti “volgari”; nuovi provvedimenti e regole disciplinari per le attrici che lavorino in emittenti statali.

Il Progetto Hijab e Castità chiarisce esplicitamente i tre obiettivi di questa nuova politica: ripulire la società dall’inquinamento causato dalla non conformità col dress code islamico, costruire un modello di società islamica incentrato sul concetto di castità e preservare i valori e la lotta contro “l’invasione culturale”. Elenca poi quelle che ritiene essere le ragioni per cui si registra una “ostilità crescente” verso l’hijab: mancanza di responsabili del monitoraggio, sentenze non eseguite o non applicate, perdita del potere di deterrenza delle sanzioni, funzionari che non lo reputano una priorità. Non solo: questo documento appare importante non solo perché finisce per spiegare più le logiche del regime che la società iraniana, ma soprattutto perché sembra rivelare una presa di coscienza, o perlomeno un certo realismo, da parte delle stesse autorità. Per introdurre nel dettaglio questo aspetto, occorre fare un passo indietro.

Oltre a quella dei simboli, la questione delle percezioni nel corso della storia recente appare centrale. L’obbligo di indossare l’hijab discende dall’articolo 18 della Legge per la ricostruzione delle risorse umane del 1981, in prima epoca post-rivoluzione, in base alla quale il neonato regime dell’ayatollah Khomeini disponeva sanzioni per chi non lo indossasse. Nel luglio del 1984 l’Ufficio delle Corti rivoluzionarie apporta delle ulteriori modifiche, stabilendo il divieto di accesso agli uffici pubblici per le donne non velate o “mal velate”. Nel 1996, nell’articolo 638 del codice penale iraniano si introducono dieci giorni a due mesi di detenzione. Nel 2005 viene varata una prima legge Hijab e Castità, di cui il documento in questione costituisce in un certo senso un aggiornamento.

Quelle del regime khomeinista sono misure draconiane, stabilite dall’ultimo governo emerso da una rivoluzione di tipo popolare, che sin da subito assume i tratti di uno Stato etico. Questo senso di urgenza aveva fermentato negli anni, sin dall’esilio di Khomeini disposto dallo Shah Mohammad Pahlavi nel 1963, proprio nel decennio precedente a una massiccia liberalizzazione dei costumi – ancora nel 1976, a Teheran andavano in scena spettacoli di nudo integrale a teatro -, che veniva mal percepita da una buona parte della popolazione. Una popolazione mediamente conservatrice e ben lontana dallo stile di vita dei quartieri nord di Teheran, spesso pubblicizzati come la diapositiva glamour del “baricentro dei costumi” nel periodo pre-rivoluzionario e che invece rappresentavano l’eccezione in un Paese tradizionalista. Khomeini e i suoi seguaci avevano vissuto anche un periodo precedente, quello di Reza Pahlavi, padre dell’ultimo Shah, che per un periodo aveva disposto il divieto del velo promuovendo un’occidentalizzazione che ai più appariva forzata.

L’imposizione del velo rappresentava quindi una agognata “vendetta”, la volontà di mostrare al mondo occidentale il proprio rifiuto di ricadere all’interno di uno dei due blocchi geopolitici della Guerra Fredda, ma anche quello di seguire un certo modello universalizzante di consumo e di costumi nella sottostante convinzione che la società iraniana fosse favorevole. Il simbolo della propria autonomia decisionale, oltre che un feticcio utile a mostrare una immediatamente visibile “diversità”. Le manifestazioni contro l’imposizione del velo di migliaia di donne a Teheran nel 1981 erano quindi apparse al regime come un residuo di quella che aveva considerato una dinamica di “importazione” dei costumi occidentali.

Il documento Hijab e Castità di recente pubblicazione fa in un certo senso luce proprio su questo madornale errore di valutazione, o meglio sulla palese sottovalutazione delle dinamiche demografiche in Iran. Perché se è vero che quello del 1979 era un Iran tradizionalista, ampiamente rurale, mediamente povero e non troppo istruito, quello odierno è totalmente diverso. Non solo perché il 60% abbondante della popolazione è nata dopo la rivoluzione stessa, rimanendo indifferente o estranea al suo “valore fondativo” ma assorbendo tutte le sue insite ingiustizie, ma anche perché di riflesso, oggi, le persone che quella rivoluzione l’hanno fatta sono sempre meno, o sempre più anziane: il baricentro percepito del concetto di “pudore” – quello che in un dato Paese si traduce nei limiti disposti dalla legge rispetto alle parti del corpo che è legale mostrare in pubblico, e che ovviamente può variare da contesto a contesto – è quindi cambiato, ed è cambiato molto profondamente.

Appare quindi sorprendente e rivelatrice la lunga premessa che il documento fa sulla situazione dei costumi in Iran. Si ammette in modo esplicito che “il 74% degli iraniani, ed il 60% delle donne, secondo diversi sondaggi, preferisce l’abbigliamento globalizzato a quello promosso dal sistema” e che “un numero sempre maggiore di iraniani non crede più nell’hijab obbligatorio”. Si rileva anche che “gli iraniani hanno iniziato visibilmente a sfidare e affrontare la polizia e gli agenti della gasht-e ershad (la polizia morale, ndr), motivo per cui è anzitutto necessario ridurre le tensioni”. In modo abbastanza immaginabile – altrimenti è probabile che non vedremmo proteste di questa portata – HIjab e Castità descrive poi questo cambiamento della società iraniana come un male da curare, o come un ostacolo da rimuovere, anziché come un sintomo di una dinamica irreversibile.

Si delineano tre scenari. Il primo è rappresentato appunto dal progetto Hijab e Castità, e dal presunto valore salvifico delle sue disposizioni. In questo senso, la novità – che forse ha contribuito al clima insopportabile degli ultimi mesi – è rappresentata dallo spostamento delle facoltà di monitoraggio dei costumi dalla polizia agli stessi datori di lavoro, sia nel pubblico che nel privato, spinti così alla delazione: “I trasgressori del dress code non saranno arrestati o affrontati direttamente, per non aumentare le tensioni. Le attività della polizia morale cesserebbero e nessuno verrebbe arrestato, perché sarebbero gli stessi manager, nel pubblico e nel privato, ad avere la responsabilità del controllo, pena sanzioni”, si legge.

Una decisione che dipende anche dal fatto che “molte donne mal velate lavorano nelle agenzie governative e il cambiamento deve iniziare da lì”. C’è spazio anche per una parziale contraddizione, se è vero che dopo poche righe si sostiene la necessità di far tornare “popolare” l’hijab obbligatorio, grazie alla introduzione negli uffici di individui e individue addestrati e fidati, col compito di “contrastare” le tendenze contrarie, creando una “cultura dell’ammonimento, dell’accettazione dello stesso e del rifiuto dell’indifferenza”.

Il secondo scenario è quello in cui tutto rimane com’è, col “rischio concreto di una crescente frustrazione nella nostra comunità religiosa, della inesorabile assimilazione della cultura e del lifestyle occidentale, e di conflitti tra la società e l’establishment”.

L’ultimo, considerato dal regime ovviamente il meno augurabile, pur sostenuto da decenni da diversi ayatollah, soprattutto di orientamento riformista (per questo marginalizzati dal potere), è quello della “abolizione dell’hijab obbligatorio”: secondo gli estensori del documento un tale sviluppo condannerebbe al “collasso dei valori islamici”, alla “crescita dei divorzi” (che peraltro sono comunque in crescita sostenuta sin dagli anni 90, ndr), alla “promiscuità delle relazioni sessuali”, “aumento dei crimini sessuali” e di quelli generazionali.

E proprio l’aspetto generazionale non va dimenticato o sottovalutato in un paese come l’Iran: non è raro che la frattura ideologica e culturale nasca proprio dentro le mura di casa, tra padri, madri e figli, sia per le ragioni menzionate sopra, sia a causa di una generale polarizzazione della società negli ultimi 40 anni: da una parte chi ha fatto la rivoluzione e negli anni ne ha assorbito retorica, sindrome di accerchiamento, vision, regole, simboli e prospettive, e che guarda con timore, talvolta terrore ai cambiamenti radicali, al crollo dell’impalcatura valoriale del regime ed in certi casi alle rendite che ne derivano; dall’altra, chi è nato in un Paese mediamente molto istruito, con una importante proiezione scientifica e razionalista, una storia millenaria di scoperte e pionieri ed una storia recente in cui hanno attecchito diverse dottrine politiche anche occidentali. Una digitalizzazione sempre più forte, ed una tendenza al confronto, alla commistione col resto del mondo. E che al cambiamento guarda invece con fame ed impazienza.

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