C’è davvero il rischio che la Russia adoperi le armi nucleari in Ucraina? I mass media che sostengono un maggiore impegno militare contro la Russia, quelli dove lavora la maggior parte degli opinionisti italiani, tendono a descrivere questa probabilità come molto piccola, trascurabile, tanto modesta da non creare preoccupazioni. Altri, più sensibili alla lezione di Papa Francesco e spesso linciati dalle corazzate mediatiche, sostengono come la minaccia sia terribilmente elevata, così alta da doverla scongiurare a tutti i costi, mettendo in secondo piano il sostegno alla lotta dell’Ucraina contro un occupante di fatto imperialista.

Entrambe le prospettive sono corrette, ma solo a metà. La consapevolezza che una guerra nucleare avrebbe conseguenze irreversibili è profondamente radicata tra la gente. E questa percezione fa concludere che una deflagrazione atomica sia attualmente molto improbabile, pur nella preoccupazione per le estreme conseguenze di una escalation bellica. Per contro, l’evoluzione del conflitto turba fortemente le coscienze di coloro che, pur considerando la guerra nucleare ancora una remota ipotesi, ritengono questa eventualità una vera e propria emergenza per l’umanità. Come accade in tema di cambiamento climatico, c’è il rischio di cadere preda del binario del negazionismo e dell’allarmismo, le cui rotaie non s’incontrano mai.

Il rischio dell’uso di armi nucleari in Ucraina è estremamente reale, tanto che il direttore esecutivo dell’Associazione per il Controllo degli Armamenti – una storica istituzione che ha per missione la non-proliferazione delle armi nucleari – ha descritto la situazione come “uno degli episodi più gravi, se non il più grave da molti decenni, in cui le armi nucleari potrebbero essere usate”. E, sempre secondo Daryll Kimbal, “anche una cosiddetta guerra nucleare limitata avrebbe conseguenze assolutamente catastrofiche”.

Verosimilmente, un conflitto nucleare, pur limitato a due sole nazioni, produrrebbe una carestia globale, almeno secondo lo scenario di settore disegnato da una ricerca recente (L. Xia et al., Nature Food, 3: 586–596, 2022). Una guerra nucleare tra India e Pakistan, magari innescata dalla contesa del Kashmir, potrebbe spedire in atmosfera tra i 5 ei 47 milioni di tonnellate di fuliggine, a seconda delle testate impiegate e di quante città fossero distrutte. E produrrebbe non soltanto tra 27 e 52 milioni di vittime dirette ma, con la successiva carestia, tra 255 e 926 milioni di persone soffrirebbero ancora la fame, due anni dopo il conflitto. Da sommare agli 800 milioni che ne soffrono già adesso.

Perché la maggior parte degli esperti valuta tuttora molto bassa la probabilità di un disastro nucleare bellico? In una intervista pubblicata da Jacobin in primavera, Analtol Lieven – direttore dell’Eurasia Program presso il Quincy Institute for Responsible Statecraft – ricordava che “la deterrenza nucleare è stata creata nelle società democratiche grazie all’accettazione delle maggioranze democratiche che le nostre società vadano difese da chi ne minaccia l’esistenza. I casi in cui si pensava di usare le bombe atomiche sono rimasti isolati; in particolare, quello del generale Douglas Mac Arthur in Corea, quando la guerra sul terreno sembrava persa. Chi ha mai pensato che il generale Mac Arthur avesse ragione e il presidente Harry Truman avesse sbagliato a porre il suo veto? Dove stiamo andando? Cosa è successo alle nostre menti?”.

E si può anche ricordare l’analogo dilemma del presidente Nixon ai tempi della successiva guerra del Vietnam. Daniel Ellsberg racconta nei Pentagon Papers questo dialogo tra il Presidente e il Segretario di Stato, un po’ il serio e un po’ faceto.

Presidente: Preferirei usare la bomba nucleare. Ce l’hai, Henry?
Kissinger: Penso che sarebbe troppo.
Presidente: La bomba nucleare, ti dà fastidio, eh?… Voglio solo che pensi in grande, Henry, perdio!

In gran parte, la teoria della deterrenza nucleare è pura speculazione. Non abbiamo molte certezze sulla risposta della Terra ai vari livelli di disastro nucleare, ma soltanto scenari prodotti da modelli giocoforza approssimativi. Le fallaci simulazioni dell’impatto di una pandemia, che nel recente passato avevo commentato su questo blog, insegnano la massima cautela nel disegnare il futuro. Con la pandemia è andata molto peggio rispetto alle aspettative di accademici e strateghi. E tanto meno certezze abbiamo su ciò che potrebbe spingere uno stato o un individuo a utilizzare le armi nucleari nel corso di una guerra, così come sulle conseguenze dirette e a medio e lungo periodo.

Gli scenari fisici e la percezione psicologica su cui si fonda la teoria della deterrenza hanno certamente una grande forza evocativa, ma il mondo asettico degli esperimenti mentali non può che fornire un affresco assai superficiale del conflitto atomico nel mondo reale. Né la storia può aiutare. Sia il quadro politico e sociale che portò alla drammatica decisione di lanciare due ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki, sia il contesto geopolitico della crisi dei missili cubani, in cui si sfiorò la catastrofe, si collocano in un mondo affatto diverso da quello di oggi. Brancoliamo nel buio, come nella Parabola dei Ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio (1568), la famosa tempera conservata nel Museo di Capodimonte a Napoli. Avverte il Vangelo: “sono ciechi, guide di ciechi; ora se un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso” (Matteo, 15:14).

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