Quando ieri mi hanno detto che la Russia aveva etichettato Meta Inc. come “estremista e terrorista”, mi è scappato un innocente “di nuovo?” che ha spiazzato il mio interlocutore.
Chi è balzato sulla sedia dinanzi ad una simile notizia forse è involontariamente poco informato perché la storia risale a marzo scorso e comincia in un’aula di tribunale, a voler essere precisi in quello della Corte Distrettuale di Tverskoy. Sette mesi fa i giudici dell’esclusivo quartiere moscovita di Tverskoy – quello che ospita il Cremlino, la Piazza Rossa e il Bolshoi – hanno accolto “in toto” le richieste dei locali procuratori che imputavano a Meta Platforms Inc. “attività estremiste”. I magistrati inquirenti accusavano Facebook e Instagram di aver ignorato le richieste del Governo russo volte ad ottenere la rimozione di presunte fake news inerenti le operazioni militari in Ucraina e delle sollecitazioni a partecipare a manifestazioni di protesta contro la guerra appena cominciata.
La sentenza – che includeva anche il divieto di dimora sull’intero territorio nazionale di qualsivoglia ufficio riconducibile alla holding capitanata da Zuckerberg – aveva messo al bando i due social ma aveva “stralciato” Whatsapp dal draconiano provvedimento. Nessun gesto di magnanimità: il sistema di messaggistica istantanea era troppo diffuso in Russia e un eventuale “stop” avrebbe innescato una rivolta popolare in un contesto globale in cui il dissenso nei confronti di “Mad Vlad” era palpabile già allora.
In quel periodo erano state azzittite tutte le voci potenzialmente dissonanti tra cui Bbc, Deutsche Welle, Voice of America, Radio Free Europe, il sito lituano Meduza ed Euronews. In quei giorni le iniziative di censura non si contavano: il 4 marzo, ad esempio, il Parlamento di Mosca aveva varato una legge che prevedeva 15 anni di reclusione per chi diffondeva o pubblicava “false” informazioni sulla “operazione speciale” in difformità con la narrativa ufficiale.
L’11 marzo il Roskomnadzor, ovvero il Servizio Federale russo per la Supervisione delle Comunicazioni, dell’Information Technology e dei Mass Media, aveva stabilito la “limitazione dell’accesso al social network Instagram” spiegando che il suo provvedimento era stato richiesto dal Procuratore Generale russo. La motivazione? “Meta Platforms Inc. ha preso una decisione senza precedenti consentendo la pubblicazione di informazioni contenenti appelli alla violenza contro i cittadini russi”.
In quella circostanza il Roskomnadzor (che evoca Pdor, figlio di Kmer, e le altre divinità di Aldo, Giovanni e Giacomo) aveva deciso di completare la procedura per l’introduzione delle restrizioni alle 00:00 del 14 marzo, concedendo – bontà loro – agli utenti di Instagram ulteriori 48 ore per consentire la transizione ad altre piattaforme maggiormente “allineate”…
Al pari dell’invasione in terra ucraina, anche la manovra digitale ha una sua “Fase 2”. E così ieri l’agenzia stampa Interfax ha annunciato la discesa in campo della Autorità che – equivalente allo sterminatore ceceno cui è stata affidata la “operazione speciale” – ha sganciato la sua bomba amministrativa. Il Rosfinmonitoring, il Servizio Federale di Monitoraggio Finanziario russo che contrasta il riciclaggio e che opera alle dirette dipendenze di Putin, ha appena inserito Meta Platform Inc. nell’elenco delle organizzazioni coinvolte nel terrorismo e nell’estremismo.
Le conseguenze sono facili ad immaginarsi ma non si limitano certo al blocco di quei social a scapito degli utenti. Il finire in quella lista ha riverberazioni economiche non trascurabili perché gli inserzionisti su quelle pagine diventano automaticamente – almeno per i russi – finanziatori di una entità dedita ad attività criminali…