di Giuseppe Criaco

Nel suo saggio sul Fascismo eterno, Umberto Eco scriveva “dietro un regime e la sua ideologia, c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni”.

Bisogna partire da queste parole per comprendere l’esito delle ultime elezioni politiche: perché l’Italia, soprattutto una certa Italia, ha da sempre coltivato una serie di “abitudini culturali” sintomatiche “in nuce”, di un germe fascista. Già Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli additava in quel lembo d’Italia un “pensiero fascista, da parte delle classi agiate, e piccolo borghesi legate agli ambienti clericali, che potrebbe ancora contagiare le neonate istituzioni e che “perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano”.

A tal proposito Leonardo Sciascia denunciava, con convinzione, il mai sopito collateralismo ideologico e culturale del popolo italiano con la nostalgia dell’uomo forte, riferendosi allora all’ampio consenso della Democrazia Cristiana. Diceva lo scrittore siciliano che “L’idea di Stato fa paura a molti italiani: e soprattutto uno stato democratico, che costringa alle scelte, che obblighi a riflettere, a porsi domande, a preoccuparsi delle conseguenze di questa o quella decisione politica. Di uno Stato del genere, gli italiani non vogliono saperne”. E concludeva asserendo che molti italiani, di qualunque orientamento politico, vivrebbero oggi dentro “un fascismo” (quindi non il fascismo) “come dentro la propria pelle”. All’interno di un regime che non desse loro la preoccupazione di pensare, di valutare, di scegliere. Un popolo, ancora una volta a pronto a barattare esercizio di diritti per la promessa di una vita più semplice.

Ma in cosa consistono le abitudini culturali evocate da Umberto Eco. Tra tutte la prima caratteristica è il culto del tradizionalismo, l’ossequio a certezze consolidatesi negli anni che non devono e non possono essere messe in discussione. Una sorta di monolitica verità già annunciata che porta come conseguenza l’impossibilità “dell’avanzamento del sapere” e contestualmente, aggiungo io, un arretramento nel campo dei diritti. Soprattutto di quei diritti che altro non sono che diritti di libertà caratterizzanti un Paese civile, nel campo della famiglia “altra”, delle unioni civili, della gestione del proprio corpo per ogni donna, in quello che deve essere la nostra sensibilità (e quella dei nostri figli) quando si parla di fede e di spiritualità.

Diritti di cui la sinistra oggi si fa paladina di facciata senza poi avere la forza o la convinzione di consolidarli e metterli al centro delle sue esperienze di governo. Assumendo e rivendicando una posizione davvero “altra” rispetto ai dettami “Dio Patria Famiglia” più volte evocati, enfatizzati, e ripetuti da questa destra. Come oscurantiste parole d’ordine.

Parole e slogan contro cui, l’Italia di oggi, non ha più gli anticorpi ideologici e culturali di un tempo, per “proteggersi”. Messaggi che vogliono “vellicare” gli istinti di più facile impatto. Tesi che rivendicano l’unico senso di appartenenza ancora possibile: quello nazionale, in un mondo in cui è stata polverizzata ogni appartenenza culturale e che ha trasformato i popoli in masse informi ed omologate (ecco servita la nuova mutazione antropologica pasoliniana 2.0). Ed a cui questa destra (destra) di oggi sa offrire un unico collante possibile: quello tribale e nazionalista, che richiama il sentimento più ancestrale e per questo motivo il più pericoloso.

Parole e slogan pericolosi che denotano come il fascismo che non passa è ancora attorno a noi “in abiti civili magari” come suggeriva Umberto Eco dalle sue pagine, in cui avvertiva che “può ancora ritornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme, ogni giorno, in ogni parte del mondo”.

Soprattutto in casa nostra.

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