“Una volta che ti hanno fatto le domande sbagliate, non devono preoccuparsi delle risposte”. Che in Sul confine del giornalista de IlFattoquotidiano.it Alberto Marzocchi (Scatole parlanti) aleggi il fantasma di Thomas Pynchon, impalpabili carni ed ossa autoriali sue e sua poetica autoriale tutta, è uno di quei soffi astrali che fanno ribaltare sulla sedia gli editori del giallo commerciale. Tutti colpevoli o nessun colpevole? Paura, eh? Arrivi in fondo – no spoiler – e la fine è pura “cascata di apofenie”, come suggerisce a pagina 179 Marzocchi stesso dentro al testo, a gamba tesa, facendosi largo tra il giornalista Ernesto Catania, l’ipermetrope Pierre, “il razzo castano” Carlotta, l’Ispettora e la piccola Brachetì. Il morto comunque c’è. C’è pure la detection “passiva” (i presunti colpevoli che si devono discolpare) in Sul Confine.
Eppure il pugno di polvere letteraria che si disperde nelle pagine della cupa e leggera distopia di un 2055 nella Grande Città dove la lira abbonda in un’inflazione weimeriana, ci si intossica di alcol, e dove le innovazioni tecnologiche tipo 7G e Sistema Assistenziale Superautomatizzato appaiono inutili e stantii, sa tanto di percezione continuamente slittante di segni, simboli e concatenazioni logiche. Questione di bias cognitivi che entrano ed escono dalla trama e occhieggiano al lettore. Quando il cadavere del vicepresidente della potentissima Lobby dei Bar viene trovato riverso senza vita e il cranio fracassato dentro una fontana in un parco vicino ad un locale da ballo, il Killer, non ci vuole nulla ai carabinieri nell’arrestare Catania e ricercare Pierre, che proprio quella notte erano di fronte al locale ad osservarne i clienti. Tutta la cronaca di prossimità e del mondo si filtra e si rimescola tra avventori guerrestellareschi de L’officina del palato, dove lavora invece Carlotta, legame stretto sia con Catania che con Pierre, e poi con il morto. Senza dimenticare che sullo sfondo, quel morto è legato a doppio filo ad un arresto eccellente nella Lobby dei bar e a triplo filo con una possibile recrudescenza di revanche francese verso l’Italia (l’Europa non sembra più esserci, che sollievo).
Tra similitudini che fioccano ammiccanti, atmosfere screziate comunque di hard boiled (“la coltre lanosa e grigia spiaccicata sulla Grande Città decise, alla fine, di sciogliersi in una pisciata controvento”), e un tono colloquiale che trita finemente Maupassant, regolari certezze nerd e impalcature professionali del protagonista (la vita di cotanta redazione…), ecco che Sul confine è un abito che si ritaglia su misura per ogni angolazione in entrata. Taglia forte o stretta, sguardo sul futuro che non è altro che un degradato presente, schema da giallo classico in cui comunque tutto torna, sperimentazione da ghignare che sembra adagiata tra postmodernismo e sua auto beffa come un qualunque L’incanto del lotto 49.