“Io non ho avuto alcun maestro, se non il muro di Tunisi, quello di fronte alla casa dove sono nato e rimasto fino all’età di 13 anni. Il muro è stato l’avversario che non sono mai riuscito a battere. Se tu tiri male, la palla ti torna indietro male e sei dunque costretto a correggerti e a migliorare”. Nicola Chirinsky Pietrangeli, 89 anni da qualche settimana, è uno dei più grandi tennisti italiani della storia. In carriera ha vinto due volte il Roland Garros e altrettanti Internazionali d’Italia, arrivando altre due volte in finale a Parigi e a Roma. Come capitano non giocatore ha conquistato la Coppa Davis nel 1976, quando lottò come un leone per portare in Cile la squadra a disputare una finale che per motivi politici non si voleva giocare. Pietrangeli e il giornalista Gianni Clerici, scomparso da poco, sono gli unici due italiani presenti nella International Tennis Hall of Fame.
“Giocavo con la racchetta regalata da mio padre, un fortissimo seconda categoria con un modo di stare in campo completamente diverso da quello che sarebbe stato il mio: aveva un brutto rovescio, ma una grande cattiveria agonistica. Era stato un giocatore di calcio, rugby e pallanuoto. Sportivamente era un tipo davvero tosto. Quando siamo arrivati in Italia mio padre cominciò a fare tornei”.
Non è stato lui il suo maestro?
“Direi di no, anche se il primo torneo che ho vinto è stato in doppio proprio con lui in Tunisia. Mio padre rinchiuso in campo di concentramento a Mareth, al confine con la Libia, fece costruire un campo da tennis e organizzò questo torneo il cui primo premio era un pettine fatto con una scheggia di bomba. Con mio rammarico quel trofeo l’ho perduto”.
Come furono per lei quegli anni?
“Non furono anni facili per me, abitavo a casa dei nonni materni che erano russi. Si mangiava russo, si parlava russo e si pregava russo”.
E’ andata meglio una volta arrivati in Italia?
“Neanche i primi anni qui furono semplici, perché non conoscevo una parola di italiano, parlavo solo russo e francese. Si tirava la cinghia parecchio. Abitavamo in Via delle carrozze a Roma e alcuni ragazzini mi chiamavano per giocare in piazza di Spagna, esclusivamente perché avevo io il pallone. Mi chiamavano Er Francia”.
Come giocava?
“Fino a 18 anni giocavo meglio a pallone che non a tennis. Ho fatto le giovanili con la Lazio, poi la società voleva darmi in prestito ad un club di serie inferiore e allora mi sono buttato nel tennis. Più avanti mi sarei allenato tre anni con la Lazio di Maestrelli. Tutti i giorni il mister mi trattava come tutti gli altri e questo per me era il migliore dei complimenti”.
Che rapporto aveva con gli allenatori?
“Credo di essere stato sempre disciplinato e di aver saputo ascoltare i consigli. L’allenatore di calcio deve saper parlare a 20 giocatori. Deve saper gestire soprattutto lo spogliatoio, poi in campo ci vanno i giocatori. Importante è tenere il gruppo. Ho visto l’altro giorno Messi, Neymar, Mbappé: cosa gli vuoi dire? Come devono giocare?”.
Lei da capitano non giocatore come si comportava?
“Pian piano siamo riusciti a diventare una squadra. Poi i quattro giovanotti non sono stati proprio riconoscenti…”.
Il documentario Una squadra di Domenico Procacci come le è parso?
“Mi ha fatto piacere, un bel film, montato bene. Ma molte cose non sono state dette oppure sono state raccontate con qualche bugia. Divertito? Bah bah…”.
Rapporto con i quattro oggi com’è?
“Non lo so. Non li vedo, non mi mancano”.
Il più difficile da gestire?
“Zugarelli, ma mi fermo qui perché poi si montano polemiche inutili. Basta un titolo sopra un articolo di giornale…”.
Come quella sul padel?
“Volevo dire che quattro giocatori scarsi di padel riescono a divertirsi subito, mentre a quattro scarsi del tennis serve molto più tempo. E allora quelli scarsi del tennis iniziano a giocare a padel. Ho detto solo questo. Ho 89 anni, posso sbagliarmi e non sono ovviamente infallibile ma posso permettermi di dire quello che mi passa per la testa”.
Riesce a citarmi almeno un maestro?
“Simon Giordano, maestro federale. L’ho avuto a Merano quando avevo 16 anni per un paio di raduni. Spiegava che non si può giocare con due mani”.
Allievi ne ha avuti?
“Nessuno, io non mi sento un maestro. Serve pazienza per diventare uno bravo. Ecco, insegnerei ai giovani a imparare a perdere che poi a vincere sono bravi tutti e soprattutto non date retta ai genitori!”.
Il tennis di oggi lo segue?
“Lo guardo ma non mi sveglio alla notte per vedere le partite. Non mi piace, ma lo accetto. Dico solo una cosa: un tempo dovevi anche saper giocare un po’…”
Gianni Clerici è stato un maestro?
“Maestro di vita e di scrittura. Ma nemmeno lui credo avesse la pazienza per esserlo veramente. Lui insegnava scrivendo. Aveva una passione per il tennis pari alla mia”.